Alzi la mano chi, dopo gli studi, ha avuto modo di ritrovarsi sotto gli occhi l’Aminta del Tasso. Pochi, ne siamo certi. La alzi allora chi ne porta memoria almeno a grandi linee. Anche qui le cose rischiano di non andare meglio: tra quelli che sono stati chiamati a dirigersi speditamente a liberare Gerusalemme, e quelli che, ancor oggi, sbiancano a sentire nominare endecasillabi e settenari, il numero sarà certamente esiguo. Fa eccezione Antonio Latella, che, rispolverata la favola pastorale composta da Tasso nel 1573, la mette in forma – la sua s’intende – per proporla al pubblico della Triennale di Milano. Interrogazione a sorpresa, cari spettatori.

Non si fraintenda, non si tratta di supplizio, tutt’altro: bastano dieci minuti e anche le orecchie dei più diffidenti si abituano alle rime che raccontano la storia del giovane pastorello, del suo amore non corrisposto per Silvia e dei consigli dei due fidi Dafne e Tirsi per far cedere alla fanciulla ogni resistenza; e ancora: del tentativo di stupro da parte di un satiro, la morte apparente di entrambi e il lieto fine con l’amore che trionfa. L’amore, già perché d’amore parla l’Aminta. Ma andiamo con ordine.

Se lo scoglio della lingua, si diceva, viene eluso, il merito è certo di Michelangelo Dalisi, Emanuele Turetta, Matilde Vigna e Giuliana Bianca Vigogna che, in piedi, posa statuaria e microfoni alla mano, imprimono il proprio soffio vitale al testo, calibrando intenzioni e intonazioni e restituendogli tutta la sua pienezza espressiva. La parola guizza per tutta la prima parte del lavoro, licenziosa e ammiccante, lirica e tormentata, rivelando da una parte tutta l’efficacia drammatica dei versi del Tasso – “non solo di Shakespeare può vivere il teatro!”, sembra suggerire il regista di Stabilemobile – ma soprattutto la loro trascinante musicalità. L’aspetto ritmico/sonoro si rivela allora uno dei pilastri portanti dell’impianto simbolico della messa in scena di Latella, come al solito piuttosto stratificata. A fare da contrappunto alle parole degli interpreti nella prima metà di spettacolo è un ossessivo refrain musicale, una scala calante – descendus o catabasi secondo la retorica musicale barocca – che anticipa in note la calata agli inferi, allegorica ed effettiva, a cui si sottoporrà il protagonista quando, convinto della morte dell’amata, si getterà da un dirupo.

Ma Latella non si ferma qui e rende ancora più esplicito il rapporto di continuità tra prosodia e musica della sua rilettura: ecco allora che dopo l’intervallo compare in scena una chitarra elettrica e i quattro, sulle note di Rid of me di PJ Harvey e Vitamin c dei Can, si trasformano in una band post-rock. Movenze ruvide, sonorità scarne, attitudine strafottente. Il messaggio è chiaro e forte. Fatti i debiti aggiornamenti, il poetar d’amore di ieri lascia il passo al cantar d’amore oggi, nella consapevolezza che lirismo e tormenti del cuore fanno breccia tanto tra i signori di Ferrara quanto nell’industria musicale odierna.
A livello simbolico la soluzione musical-performativa funziona qui più che in altri spettacoli di Latella – vi ricordate il momento rave di Pinocchio figlio della stessa estetica alternative-berlinese? – ma l’intensità selvaggia e vibrante a cui aspira rimane uno dei punti su cui gli attori devono ancora lavorare.

E veniamo finalmente al tema che tutto muove: l’amore. Imprevedibile e dispettoso, il dio dal dardo facile e acuminato quanto la punta di una matita – quella che viene lentamente temperata durante tutto lo spettacolo e che richiama, in autocitazione, lo sfaldarsi del burattino collodiano – scandisce il nostro vivere e quello dei protagonisti, ma soprattutto li “pungica”, spronandoli a compiere azioni che sono declinazioni diverse del tema passionale. C’è l’amore puro e rispettoso fino al sacrificio di sé del protagonista e quello insistente, e altrettanto caparbio, professato dalla voce di Dafne: chi imparar vuol d’amare,/disimpari il rispetto: osi, domandi,/ solleciti, importuni, al fine involi. C’è poi quello apertamente bestiale, perpetrato dal satiro, che addirittura contempla la violenza carnale.

Tre fisionomie distinte nel testo dell’autore manierista che Latella fa però convergere, aprendo così diversi scenari possibili: nella scena dello stupro vediamo infatti Aminta trasformarsi in satiro, e subire sul suo stesso corpo, nudo, il martirio per mano di Silvia – o almeno dell’attrice che la interpreta.
È lo smascheramento da parte della donna di un amore (maschile) fintamente disinteressato, e che rivela, all’occasione, la sua indole primitiva e spietata? O si sta piuttosto dichiarando che il sentimento puro e platonico è una fantasia da benpensanti, che ammette la propria esistenza solo come violenza e repressione della propria sessualità?

Latella riprende il testo del S’ei piace ei lice in un momento storico scottante. Pur ipotizzando infatti che l’intenzione di partenza del regista fosse quella di rimandare, attraverso l’edonismo erotico vagheggiato dal Tasso, a una libertà sessuale castrata (senza scordare il tema omosessuale: Aminta/satiro trasfigura nel martire gay per eccellenza, un san Sebastiano trafitto dai microfoni), finisce poi per toccare alcune delle corde più tese del dibattito sociale contemporaneo.
Impossibile infatti non pensare alla ridefinizione delle norme relazionali innescata dal #metoo: movimento proficuo nello scoperchiare e mettere all’indice modelli comportamentali inaccettabili, ponendo in discussione ruoli e generi, ma anche capace – come ogni azione di rottura – di proporre posizioni-limite, non prive di sfumature eccessivamente normative. Una prospettiva ambivalente che riverbera, in un certo senso, il tempo del Tasso, il quale mentre scriveva l’Aminta si trovava preso tra due fuochi: pur auspicando nell’opera il ritorno a una libera affermazione dell’istinto erotico, salutato come espressione vitalistica e spontanea di un’ideale età dell’oro, il poeta era anche consapevole di vivere in un contesto di corte dove le norme sociali si stavano facendo più rigide e moraleggianti all’ombra della chiesa controriformista.

Le contraddizioni, si sa, giovano al teatro. La messa in scena di Latella porta letteralmente alla luce, attraverso il moto perpetuo di un proiettore che gravita su un binario intorno agli interpreti, i chiaroscuri dell’opera del Tasso ma anche del nostro esistere. La vita, l’amore, perfino la vocazione all’arte possono essere abbagli fugaci, che lasciano sovente il passo al buio. La favola pastorale del Tasso, idilliaca solo in apparenza, ha, del resto, inscritta in se stessa gli stilemi della tragedia classica. Che poi tutto si risolva in un lieto fine è più un auspicio che una certezza.

Corrado Rovida


Aminta
di: Torquato Tasso
regia: Antonio Latella
con Michelangelo Dalisi, Emanuele Turetta, Matilde Vigna, Giuliana Bianca Vigogna
drammaturga: Linda Dalisi
scene: Giuseppe Stellato
costumi: Graziella Pepe
musiche e suono: Franco Visioli
luci: Simone De Angelis
movimenti: Francesco Manetti
assistente alla regia: Francesca Giolivo
production: Brunella Giolivo
management: Michele Mele
produzione: stabilemobile
in collaborazione con: AMAT e Comuni di Macerata e Esanatoglia nell’ambito di “Marche inVita. Lo spettacolo dal vivo per la rinascita dal sisma”

foto di Brunella Giolivo

Visto alla Triennale Teatro dell’Arte di Milano_17-20 gennaio 2019