Anticorpi
COMPAGNIA ZAPPALÀ DANZA

“Pettru non tirari i pettri, ca rumpi i vittri…”. Un proverbio, una nenia infantile, pronunciata in dialetto siciliano. “E vinghino i lattri  che pigghiano i quattri di bedda mattri”. Viene ripetuta in continuazione, con le più diverse intonazioni: ora meccanica, ora minacciosa, ora stridula, fino ad essere totalmente desemantizzata, a risultare inquietante. Risuona intanto nell’aria uno stridore metallico che diviene sempre più tagliente e straniante mentre i danzatori si muovono in cerchio con sempre maggior frenesia e un fascio di luce bianca percorre il palco e la platea, accecando ciclicamente il pubblico. Quando il movimento raggiunge il suo zenit, l’atmosfera si ribalta drasticamente. Si accende una luce azzurra, soffusa, che illumina solo due danzatori, un uomo e una donna, mentre gli altri si raggruppano sul fondoscena. Lo stridore cala fino a diventare impercettibile: sono le note di un pianoforte ad accompagnare ora i movimenti sincronizzati dei danzatori, fattisi estremamente delicati, dolci. I corpi sembrano agire da soli, senza il controllo dei loro stessi proprietari, che spesso afferrano i loro stessi arti, forse per riprenderne possesso, forse per scoprirne e comprenderne il movimento. L’immagine è semplice, morbida, teneramente infantile, ancor più se paragonata alla frenesia e al caos organizzato che l’ha preceduta: un uomo e una donna, un bambino e una bambina, lui vestito d’azzurro e lei di rosa, si muovono insieme alla scoperta del corpo e dello spazio. Dopo che lo spettacolo ha giocato a confonderci, mostrandoci immagini instabili e sfuggenti si scorge finalmente una forma definita e chiara. Quasi a voler confermare questa sensazione, i danzatori sullo sfondo iniziano lentamente ad avvicinarsi al centro della scena e finiscono per unirsi alla danza sinuosa degli altri due interpreti. Ma proprio quando sembra comporsi davanti a noi un quadro unitario e coeso, l’incantesimo si infrange e le particelle riprendono a schizzare in tutte le direzioni. “Freude, schöner Götterfunken…” l’Inno alla gioia risuona improvviso e assordante, mentre la coppia di ballerini si lascia andare a terra. Una luce neutra e potente interrompe l’atmosfera onirica in cui lo spettatore era stato immerso, riportandolo alla realtà di un mondo in movimento. Fulmineo com’era iniziato, l’Inno si interrompe, e i componenti tornano a mischiarsi, in cerca di un nuovo equilibrio.

Michele Spinicci

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MilanOltreView