di Gigi Gherzi
regia di Lorenzo Loris
visto al teatro Out off di Milano _16 ottobre – 2 novembre 2014.

Dalla città sono appena andati via, con clamore di sirene, i leaders del mondo, dopo aver levato gli scudi contro un virus indefinito e la nuova minaccia di un’epidemia globale. Nel tardo pomeriggio suona ancora incessante il battito di elicotteri sentinella: due cortei percorrono il centro, con itinerari e intenti diversi, pro o contro l’invasione dei ‘barbari’ che arrivano dal mare (non più nostro e non più culla di civiltà, ma spesso tomba).
Tramonto al sabato di una grande città in fermento, distratta: ad autunno iniziato, si può ancora mangiare fuori o passeggiare ai Navigli oppure andare a teatro, per assistere ad uno spettacolo che nel titolo fa bella mostra di un nome antico: Antigone nella città. Un titolo che stride, suona come una contraddizione. La città, infatti, resta fuori dal teatro, per le strade affollate del sabato sera, sui tram accaldati, in piazza Duomo oberata di bandiere e rabbie urlate: lì bisognerebbe dunque cercare l’ombra di Antigone, le sue tracce, se ‘Antigone’ vale come nome simbolo della resistenza, o meglio del dilemma etico tra la legge non scritta della tradizione contro la ‘follia di parola’ dell’autorità, dello Stato, dell’autoritarismo nella sua pienezza di diritto.

Antigone, protagonista della tragedia di Sofocle, un dramma tra i caposaldi e gli archetipi del ‘canone teatrale europeo’ (titolo di una bella collana diretta da Anna Barsotti e Annamaria Cascetta per ETS edizioni, dove è appena stata pubblicata una nuova, ottima lettura ‘dentro il testo’ e traduzione proprio del dramma di Sofocle a cura di Luigi Belloni). Il posto di Antigone, dunque, non è forse in teatro? Cosa c’entra la città? In teatro idealmente si torna alla storica città di Antigone, alla polis, Atene del V sec. a.C., nella quale la rappresentazione degli agoni tragici costituiva il momento pubblico più solenne di condivisione politica, religiosa, rituale. Ma in che senso Antigone vive nella nostra città? La domanda apre un ventaglio di altre domande, sulla rappresentabilità e l’attualità del mito, sulla sua dimensione politica in una ‘città’ che non è più necessariamente da intendersi come preciso luogo geografico, sulla violenza politica e il suo esercizio sui corpi, sulla violenza della parola politica e tragica, la “parola che uccide”, come diceva Hölderlin.

Con tali questioni si misura da qualche tempo la ricerca di Gigi Gherzi – il quale adesso porta queste domande dalla città al recinto del teatro, in un dialogo di tenore filosofico ma soprattutto didattico tra due personaggi, vestiti in maniera vagamente militaresca, con una specie di fez a copricapo, che si fronteggiano tra loro. Per l’un personaggio, Luca (Gigi Gherzi), il teatro greco e i suoi miti non hanno smesso di essere significativi; per l’altro, Leo (Lorenzo Loris) nella nostra cultura, satura di immagini e parole, il mito greco non ha più nulla da dire, sopraffatto com’è da altri problemi, dalla distrazione e spesso dalla disperazione.

Per l’uno il teatro sopravvive e deve essere difeso come luogo di incontro, di formazione, di auto-coscienza; per l’altro una società ‘liquida’ (Bauman) e digitale ha perso, letteralmente e metaforicamente, il teatro, lo ha sostituito con un non-luogo globale, la rete, il web, in cui i limiti tra chi vede e chi è visto, tra chi parla e chi ascolta, sono dissolti. Per questa posizione scettica il teatro come istituzione non ha più senso: la città stessa diviene possibile sito di performance e anche di materiale drammatico, discontinuo, interrotto, in cui è scomparso sia l’autore che il testo autoriale. Per Luca, il messaggio di Antigone, la ‘condivisione dell’amore’ e la sua giovane e coraggiosa opposizione alle leggi in nome di un etica tradizionale e familiare aprono ancor oggi una speranza (e analoghi messaggi sarebbero da trarre dagli altri miti greci); per l’altro non è più tempo di messaggi e di parole, ché disincanto e incredulità sommergono i valori tradizionali, sinanche le aspettative religiose.

Per l’uno e l’altro dei due dialoganti, però, la questione principale è costituita dalla violenza delle immagini in un mondo violento: quali sono i limiti della rappresentabilità delle azioni violente e le motivazioni del piacere che provoca l’assistervi? Invero si tratta di una questione antica dell’estetica teatrale e spettacolare in genere, una questione già greca (di Aristotele, solo ad esempio), e cioè perché si subisca un fascino profondo alla rappresentazione di situazioni, eventi, destini che dovrebbero piuttosto inorridirci e distoglierci. In età moderna, Schiller per primo si è chiesto con lucidità perché si provi piacere nell’assistere ad una tragedia: dove il termine tragedia era ormai diventato paradigma universale di orrore e di violenza, mentre impallidiva progressivamente il suo significato specifico e storico, legato al preciso genere poetico dell’Atene del V sec. ed alle istituzioni politiche e religiose.
Nel frattempo, però, il teatro ha oggi a che fare con un pubblico in cui le forme rappresentative e i mezzi tecnici del cinema, dei media, delle varie forme di comunicazione hanno infinitamente ampliato le possibilità di rappresentare violenze e ogni tipo di tortura, mutilazione, spargimento di sangue.

Ma diversamente dai media contemporanei – in cui anzi la riproduzione di atti di violenza fisica diventa addirittura oggetto feticistico – la tragedia greca costituisce una forma artistica più complessa, poiché rinuncia a rappresentare atti di sangue e morte. Piuttosto li rappresenta indirettamente, attraverso il resoconto dei messaggeri o il compianto corale: proprio le limitazioni imposte alla spettacolarità, provocavano nel pubblico antico l’acuirsi della capacità immaginativa e l’esperienza estetica collettiva si caratterizzava per la sua intensità. Nella tragedia greca, la rappresentazione della violenza viene infatti lasciata alla parola nuda, dunque all’ascolto, oppure al lamento o anche al silenzio: certo in questa scelta rappresentativa avrà contato la necessità di non infrangere un tabù religioso; ma d’altro canto si riusciva così a portare allo spasimo nello spettatore la tensione emotiva, in un vero e proprio coinvolgimento anche fisico, con sudori, tremori, insomma con la catarsi (che è termine medico, non psicologico). La tragedia greca è infatti costruita in maniera tale che le forme indirette di presentazione del fatto tragico accrescano lentamente l’attesa dello spettatore: il quale crea mentalmente sempre nuove immagini di quel che accade in scena, si proietta con ansia e paura nei modi in cui finirà la vicenda (di cui conosce la trama), produce insomma immagini che non potrebbero scaturire da una visione diretta, esplicita, di un atto di violenza feroce, inaudito. Il singolo spettatore realizzava l’esperienza dell’orrore sul proprio corpo, senza che venisse con ciò meno la distanza dovuta alla mimesi artistica: ecco il nocciolo del ‘piacere’ ad assistere ad argomenti tragici in senso schilleriano. Ma si può realizzare un’analoga rappresentazione della violenza nel teatro post-moderno? Si deve? E se si, come? La tragedia greca può servire ancora da modello di processi teatrali e dei loro effetti psicologici? Quale interesse estetico conserva insomma la tragedia antica sulle scene (teatrali e non) attuali? E quale interesse etico oppure sacrale (laicamente religioso)? Quale funzione pedagogica? Quale compito sociale?

Al teatro Out Off di Milano due attori di mestiere, Gigi Gherzi e Lorenzo Loris, impersonando loro stessi, hanno proposto al pubblico in forma di spettacolo una ricerca in fieri basata su queste grandi domande. L’hanno resa fruibile attraverso esempi storici e l’inserimento di video nello spettacolo (l’attacco alle torri gemelle, una corrida, una citazione non facile dalla Medea di Pasolini); hanno offerto insomma materiale per pensare, discutere, fare lezione. Hanno posto domande senza la pretesa di dare soluzioni. Come spesso nell’agone delle tragedie greche, infatti, le due posizioni restano ambedue sostenibili, e alla fine non sono tanto opposte quanto complementari. La figura adolescenziale di Antigone passa certo in secondo piano, in questo confronto, e qualche spettatore attratto dalla prima parte del titolo nella locandina potrebbe restarne deluso (anche se a latere dello spettacolo ci sono incontri d’approfodimento più centrati sull’interpretazione del mito). Ma resta – ed è molto importante – la proposizione del teatro come luogo necessario, insostituibile, di incontro, di educazione, di istituzione morale; resta anche l’auspicio che gli attori e la gente di teatro facciano tesoro di queste riflessioni, proponendo le loro soluzioni nella concreta prassi rappresentativa, nel lavoro alla tragedia greca, alla sua elaborazione e riproposizione.

Sotera Fornaro