progetto e regia Laura Tanzi
drammaturgia Laura Tanzi, Mauro Vaccari
visto alla Fabbrica dell’Esperienza di Milano_ 11-12 marzo 2017
Il cuore di ogni metropoli nasconde spazi intimi ed unici di scambio ed affinità culturale: così appare la Fabbrica dell’esperienza di Milano. Entrando in questi indefinibili locali, biblioteca e salotto, laboratorio e palcoscenico, si viene subito travolti dal linguaggio muto delle cose: libri, maschere, candelieri, mobili d’antiquariato, strumenti musicali e un grammofono, quadri, locandine. Ogni oggetto, qui, potrebbe raccontare un’epoca, un giorno particolare, una storia; ogni oggetto rinvia ad un’esperienza umana, artistica, attoriale, letteraria, visuale. Questo luogo pare anzi in attesa di qualcuno che lo racconti; ed è dunque uno di quegli spazi, poco avvezzi alla celebrità, per nulla freddo come un foyer di passaggio, in cui ci si può invece aspettare l’incontro o l’attimo decisivo, rivelatore, e l’inizio di un percorso di amicizia umana e di riflessione sull’arte e per l’arte – che rappresenta il nocciolo della vita umana, a dispetto dei tentativi di ogni segno di svilirne l’utilità. In questa cornice, ha avuto luogo un nuovo ripensamento del tema di Antigone, in una pièce volutamente simbolica e surreale, Anti(real)gone, scritta da Mauro Vaccari e da Laura Tanzi, su progetto e regia di quest’ultima. L’associazione Lyra teatro, che sinora ha esperito soprattutto percorsi del teatro contemporaneo, si cimenta con la trasposizione di un grande ‘classico’ in una realtà post-moderna, nel suo immaginario fotografico e televisivo, in modelli comportamentali e sociali lontanissimi dall’Atene di Sofocle, in cui però domina ancora (come in parte nella tragedia sofoclea) il conflitto tra il potere (o i poteri) e le ragioni dell’individuo, l’incapacità di alcuni (come Antigone) di non uniformarsi docilmente alla moda, alle convenzioni, alla maggioranza; vi si aggiungono i temi della vacuità e dell’ipocrisia delle strutture familiari, l’estetica del fumetto che propone illusori modelli etici da super-eroe, la precarietà della donna e la sua fragilità in ambienti tutti permeati di violenza maschile.
Forse un po’ troppo: tanto più che qualsiasi messa in scena che si rifà, anche indirettamente, all’Antigone, deve comunque fare i conti con una tradizione pesantissima e dai nomi altisonanti nella storia del teatro. Ed è vero che chi abbia il coraggio di un corpo a corpo con il tema di Antigone rischia facilmente ed inconsapevolmente di essere declamatorio. Anti(real)gone, però, si tiene in equilibio, grazie soprattutto al ritmo drammatico che simula le tappe di un videogioco a sipario sin dall’inizio aperto; e che nasconde bene i pericoli della retorica nel succedersi veloce di quadri che tengono sempre desta l’attenzione e la partecipazione del pubblico (che in parte, come un coro, siede in scena). Di questo progetto drammatico, qui si vuole evidenziare quella che a mio parere è la maggiore novità: l’aver messo in ombra Antigone, ed aver posto al centro della piéce l’enigmatica Ismene, che la tradizione interpretativa riduce ingiustamente al ruolo di sorella opaca. Invero nella tragedia di Sofocle, Ismene sopravvive e scompare e non ne sappiamo più nulla; torna a parlare in prima persona dopo Sofocle, per quel meccanismo della ricezione per cui si colmano i vuoti e i silenzi dell’originale. Qualche esempio: nel poemetto permeato di dissoluzione di Ghianni Ritsos (1972), monumento alla memoria della dittatura dei colonnelli; nel monologo Ismene, sorella di (2014) dell’olandese Lot Venekoen, dove Ismene scompare infine nella nebbia dell’anonimia, dopo una vita spesa per amore.
Quando le donne si sono impossessate del discorso sull’ Antigone, cercando di sottrarlo al monopolio maschile su cui gravava e grava l’ombra di Hegel, per il quale Ismene non esiste, Ismene torna a vivere: come modello negativo, dapprima, di chi non sa farsi interprete delle esigenze di genere e si accomoda al sistema (Luce Irigaway): poi come modello propositivo del ‘fare politico’, colei che vorremmo ‘sorella’ nella lotta per l’emancipazione senza l’irrazionalità distruttiva di Antigone: così ad esempio in Anni di Piombo di Margareth von Trotta (1980), in cui il richiamo al mito è solo implicito, ma poi esplicitamente nel romanzo Mia sorella Antigone di Grete Weil (1980) e – ancora ad esempio – in Il resto è silenzio (2007) di Chiara Ingrao. Il femminismo ha dunque prima disprezzato Ismene, poi l’ha occultata, identificandosi in Antigone. Infine, però, la ragione pratica di Ismene è sembrata impersonare la posizione ‘giusta’, di chi vuole cioè cambiare le cose dall’interno del sistema, il paradigma mitologico della assennata lotta di genere. Quanto più l’irrazionalità di Antigone è servita da specchio per un tipo di rivolta femminile ideologica e cruenta, come il terrorismo degli anni ’70 e da ultimo il terrorismo delle vedove nere cecene o delle islamiste, tanto più si sono ricordate le ragioni di Ismene. Questa posizione sembra presente anche in Anti(real)gone: dove ad un’Ismene piccolo-borghese e pronta al compromesso, poco eroica ma molto pratica e disincantata, vera vittima della violenza sessuale maschile, si affida la speranza di un mondo diverso (in una modalità che non raccontiamo, per non togliere nulla alla visione). È Ismene dunque, con il suo doloroso senso di realtà occultato da una vanità irritante, la possibile alternativa? È in questo personaggio coraggioso a modo suo, che sceglie il silenzio ipocrita ed il rispetto delle forme, che si addossa una difficile missione tutta femminile, che si cela il modello dell’agire concreto ed utile, e non distruttivo ed autolesionista come quello di Antigone? Ovviamente la piéce lascia la risposta al pubblico; che va via dall’archivio di memoria della Fabbrica dell’esperienza chiedendosi se non abbia assistito ad un’ ‘Anti-Antigone’.
Sotera Fornaro