Le Nuvole di Aristofane
interpretato e diretto da Teatro Due
visto al Teatro Due di Parma _ 8-12 febbraio 2014
Aristofane reloaded. O meglio, revisited. Torna a misurarsi con il comico antico l’Ensemble Attori Teatro Due di Parma, già autore nel 2011 di un bell’adattamento ‘collettivo’ delle Rane approdato a Milano nella scorsa stagione: rimasto impresso nella memoria di molti soprattutto per il finale accorato che perorava la causa della poesia, l’unica in grado di salvare la città e il suo teatro.
E non è un caso se proprio questa scena è ricordata dagli stessi attori nelle Nuvole (in linea con l’autore, Aristofane, che amava ‘citarsi’ nelle commedie e vantarsi dei suoi successi): i due spettacoli di Teatro Due infatti formano un dittico che s’interroga sul ruolo del teatro – e della cultura in generale – nella società ateniese e nella nostra. L’adattamento delle Rane si chiudeva con tanti palloncini – i versi dei poeti antichi e moderni – che si libravano in volo. Questo invece si apre con un prologo aggiunto alle Nuvole (tratto dall’Apologia di Platone), dove Socrate (Gigi dall’Aglio, perfetto nel ruolo) spiega le ragioni per cui lo condannano a morte nel 399 a.C.: perché, in sintesi, con le sue domande pungola e dà fastidio, come un tafano o una zanzara.
In questa chiave possiamo rileggere queste Nuvole e anche la scelta di farle seguire alle Rane, capovolgendo l’ordine cronologico originale. Ma qui, a dire il vero, la storia riserva delle sorprese: Aristofane infatti mette in scena le Nuvole nel 423 a. C., e le Rane quasi vent’anni dopo (405 a.C.); ma la prima commedia all’epoca non ha successo, perde il concorso. Aristofane ci rimane molto male (scriverà, a riguardo, era “la migliore delle mie commedie” eppure non è piaciuta). Prova a riscriverla, la cambia, non sappiamo quanto, né quando: si è persa la prima versione e conservata la seconda. Partendo da qui proviamo a leggere ‘a ritroso’ i due allestimenti di Teatro Due: nelle Rane Dioniso riporta in vita il poeta Eschilo, l’unico capace di salvare la città con la sua arte; qui nelle Nuvole l’idolo polemico è Socrate che nella sintesi allegorica di Aristofane ‘sta per’ i filosofi, gli intellettuali, gli artisti e naturalmente gli attori: subito dopo il prologo platonico, infatti, entra in scena una compagnia scalcinata di comici girovaghi, a bordo di una scassata automobile con tanto di altoparlante che annuncia lo spettacolo. La spingono tre donne con ingombranti gonne di tulle (il coro di Nuvole) e a bordo ci sono gli attori/musici in un buffo costume che ricorda quello nazionale greco con gonnellino e scarpe col pompon sulla punta (quello del cambio della guardia in Piazza Syntagma ad Atene, per intenderci).
Gli attori leggono il copione, e si chiedono come l’oggetto di satira possa diventare bersaglio di aggressività letale, sulla scena (come vedremo) e nella realtà. Se già in Aristofane il piano della finzione si sovrappone di continuo a quello reale (sotto i suoi personaggi vediamo sempre gli attori) qui il gioco metateatrale si fa asse portante dello spettacolo: ‘il corifeo’ (capocoro) rinnova la parabasi aristofanea con una bella imitazione di Socrate in chiave contemporanea, chiedendo conto a Dall’Aglio dell’esercizio della sua professione di attore, della sua necessità e funzione; poi, reinterpretando Aristofane (che spesso critica le scelte dei rivali mentre le usa lui stesso, provocatoriamente) spara bordate contro i colleghi registi che “attualizzano i classici” portando in scena automobili (frecciata indiretta alle Rane siracusane di Ronconi, del 2002, ma l’auto in scena c’è anche qui!) e conclude “In galera, dovrebbero andare!.. Anzi, no, perché poi fanno teatro anche lì!”). Più avanti il Pensatoio /Scuola dei Filosofi diventa – significativamente – “l’Accademia”, a cui chiederà un “provino” Strepsiade, l’anti-eroe becero e ignorante della commedia ossessionato dal denaro, disposto a tutto pur di non pagare debiti (e tasse), di scampare ai processi, di farla franca (non occorre far nomi: bastano la postura, il linguaggio e il doppiopetto con risvolti larghi, alla Forza Italia).
Strepsiade si rivolge agli attori/ filosofi per carpirne i segreti, i trucchi del mestiere, la parlantina, la forma vuota e l’apparenza – non il contenuto – di quella ‘cultura’, arte o poesia, che lui evidentemente disprezza: la stessa sala del teatro in cui ci troviamo è per lui “uno spreco di spazio: sarebbe da buttar giù e tirar su un garage di tre piani”. Ed è talmente refrattario alla scuola da non riuscire ad assimilare nulla; così manda il figlio a imparare al suo posto “l’arte di ottenere ragione anche quando si ha torto”. Il suo ‘bamboccione’ viziato esce dal Pensatoio trasformato: aggressivo e demoniaco, come Di Caprio nell’ultimo film di Scorsese The Wolf of Wall Street (coincidenza voluta o casuale? In ogni caso segno dei tempi). Naturalmente i creditori perdono la causa e i soldi, grazie a cavilli e sofismi (“è la finanza creativa, bellezza!” commenta sarcastico Strepsiade).
Ma ben presto il figlio si rivolta contro il padre, e a quest’ultimo non resta altra consolazione che una brutale vendetta. Cospargerà di benzina l’auto dei comici /filosofi, per incendiarla e farli soffocare tra fumo e fiamme mentre le Nuvole scatenano gli eventi atmosferici.
Mai visto così, in tutta la sua brutalità, questo finale che ha fatto molto discutere gli interpreti aristofanei, e che altri allestimenti moderni tendono a edulcorare o sublimare (si veda ad esempio la recensione “Aristofane senza filtro. Le Nuvole di Latella-Russo” di M.Treu, M.Giovannelli, A.Capra, Stratagemmi. Prospettive teatrali, n.13, 2010). Qui, invece, alla commedia viene aggiunta una breve scena, ancora di derivazione platonica (dal Fedone) che si ricollega al prologo: Dall’Aglio esce dall’auto, si veste da Socrate, beve la cicuta e pronuncia le ultime parole prima di morire. Un attimo sospeso, poi ci riscuotiamo di colpo: sul palco inizia a piovere, questa volta ‘sul serio’! Gli attori raccolgono in fretta l’attrezzeria, risalgono in auto e ripartono. Il viaggio continua.
Il finale ‘aperto’ ci fa ripensare ancora alle Rane: quella commedia nel 405 ebbe un tale successo da richiedere – a furor di popolo – una replica integrale e immediata subito dopo la prima (caso unico, a quanto si sa, nella storia del teatro ateniese). E l’adattamento di Teatro Due reinterpretava bene la poesia dell’originale, con un tocco di modernità e di speranza, perfettamente in sintonia con l’autore antico (perciò mi pare giustificata per entrambi gli spettacoli la dicitura ‘di Aristofane’, anziché ‘da’, che a suo tempo fece indignare certi spettatori dell’Elfo). Anche qui rimane la dicitura ‘di’ per una versione libera, eppure fedele, che non nasconde ma semmai esalta dubbi e incertezze, intoppi e asperità di una commedia unica: ambiziosa e sconfitta, rimaneggiata e ibrida – con parti vecchie e nuove che non si saldano e non combaciano – e in definitiva rimasta incompiuta, irrisolta.
Questo penalizza inevitabilmente la riuscita di uno spettacolo che ci appare in viaggio – come l’auto dei comici – e può solo migliorare nel tempo: speriamo di rivederlo a Milano – come già le Rane – dopo il rodaggio di una tournée che sviluppi e valorizzi tutte le buone idee, gli spunti di attualità, le belle trovate metateatrali che in parte risalgono ad Aristofane stesso, e che l’Ensemble amplifica e rinnova con intelligenza e originalità rare. Un esempio su tutti: Dall’Aglio/Socrate appare a Strepsiade appeso a una carrucola, e come il protagonista della Pace (altra commedia aristofanea) è visibilmente preoccupato che la gru lo faccia cadere: perciò, quando Strepsiade gli chiede “Socrate, cosa ci fai lassù in aria??!” risponde “Vorrei tanto saperlo anch’io!”
Martina Treu