di Phoebe Zeitgeist
visto al teatro Franco Parenti _ 22 novembre – 4 dicembre 2016

Nel 1982, la BBC trasmette l’adattamento televisivo del Baal di Bertolt Brecht. Il protagonista è un David Bowie reduce dal suo periodo berlinese che, a guadare indietro, sembra incarnare perfettamente quella figura di artista anticonformista e inquieto: scomodo nell’impossibile equilibrio tra estro creativo e società del capitale e dei cliché, incapace di stare dentro a un’identità univoca e in continuo sconfinamento tra arte e vita.

L’anti-eroe che dà il nome all’opera prima di un ventenne Bertolt Brecht (1918) non si presta d’altra parte a facili interpretazioni. Testo poco conosciuto e poco rappresentato, non gli sono state tributate, in teatro, riletture celebri. Piuttosto nota, invece, è proprio l’edizione televisiva (e la successiva raccolta di canzoni) con protagonista Bowie. O, ancora, la controversa interpretazione di Fassbinder nel film del 1970, dapprima censurato dalla famiglia dell’autore perché troppo concentrato sulla depravazione del protagonista. Una depravazione che va letta, invece, in relazione con la condizione di abbandono sociale che gli sta intorno. Così l’ha intesa, oggi, Giuseppe Isgrò con la sua compagnia Phoebe Zeitgeist, facendo di questo lavoro la prima tappa di un percorso dedicato agli autori bavaresi che sono, tra l’altro, punto di riferimento costante per la poetica del gruppo.

Dopo il primo studio presentato lo scorso anno al Teatro Franco Parenti – che lo ha prodotto e commissionato nell’ambito del Focus Brecht con altri occhi, che celebrava i 60 anni dalla morte dell’autore tedesco in un eterogeneo laboratorio di sperimentazione tra registi di diverse generazioni – Phoebe Zeitgeist ha debuttato proprio al Parenti con lo spettacolo nella sua forma completa. Nell’adattamento del testo e nella sua restituzione scenica, il gruppo attraversa nel profondo la parabola e l’esistenza di Baal, esasperando – al di là della lineare narrazione delle vicende – la sua natura. Poeta smodato e anticonformista, Baal è divorato dalla sua furia creativa, trascinato in una carnale e totale relazione tra arte e vita, in un corrosivo disequilibrio tra l’ambizione della sua genialità e l’avversione di una società capitalistica e ottusa: tra sregolatezza, manierismo ed eccesso, Baal sfida le convenzioni sociali e affettive fino ad arrivare all’autodistruzione.

La regia di Giuseppe Isgrò, con un’attenta cura all’aspetto visivo, crea un’esplosione di istantanee, visioni di uno scenario di eccesso e decadenza. Enrico Ballardini è un Baal potente e a suo modo misurato, nell’equilibrio con la tendenza a sconfinare propria del personaggio: insieme agli altri attori (Franesca Frigoli, Dario Muratore, Margherita Ortolani) si immerge in un flusso di immagini e vicende che trascina il pubblico nell’espressionistico universo di Baal. Ripercorrendo l’importanza che la musica ha sempre avuto nell’opera di Brecht, Phoebe Zeitgist lavora su una partitura sonora dirompente e predominante, composta e suonata in scena dal percussionista Elia Moretti come costante contrappeso all’interpretazione degli attori: il risultato è un affresco deformante e complesso saturo di luci, colori, corpi, movimento, parole e suono. Un linguaggio scenico che evoca con coraggio un’estetica violentemente espressionista: richiamando le avanguardie artistiche della Germania di inizio secolo predilige l’emotività disturbante del gesto all’oggettività rassicurante delle parole.

Così, la figura di Baal rappresenta, all’estremo, una problematica universale della condizione dell’artista. Fino a dove si può spingere l’arte senza scendere a compromessi con i sistemi (e le avversioni) del pensiero comune del pubblico e della critica? Rock-star ante litteram, Baal fa della propria vita atto performativo, in difficile conciliazione con la rigidità dei sistemi sociali. Fino a rendere anche la propria sparizione, nell’abbandono, atto performativo.

di Francesca Serrazanetti