Siamo tornati al Medioevo. E per una volta l’espressione non rimanda alle cronache di imbarbarimenti e chiusure che caratterizzano le politiche del Belpaese di questi mesi. No, la questione, intimamente estetica, riguarda l’affermazione di una nuova egemonia della rappresentazione per immagini, dove l’aspetto visivo si sostituisce alle più tradizionali meccaniche narrative, adattando la propria ricerca formale a una più evoluta espressività sincretico-simbolica. In altre parole, scordatevi la grande prosa e, ancora di più, le narrazioni fondate su una lingua complessa: in una realtà frammentata, dove la capacità di concentrazione si riduce di anno in anno in favore di un’attenzione multidirezionale e multitasking, il traguardo è semmai una rappresentazione iper-densa, che porti inscritta nella sua immediatezza i suoi significati più reconditi, come avviene nelle allegorie tanto care all’età di mezzo.
In fondo c’era d’aspettarselo: che la società instagrammata stesse evolvendo dalla lallazione espressiva del selfie narcisista a una consapevolezza smaliziata, conscia delle proprie potenzialità, ce lo mostrano da tempo a livello commerciale i successi legati allo storytelling e al product placement dei vari influencer, mentre in ambito culturale a marcare l’interesse per una saturazione simbolica dell’immagine è, come spesso accade, la materia filmica. Non solo sul grande schermo – illuminante, a questo proposito la riflessione di Alessandro Baratti su gli spietati.it – ma soprattutto nei grandi collettori web on demand, dove, dopo la rivoluzione seriale dei primi Duemila e il successivo periodo di normalizzazione del canone, i tempi sembrano maturi per un nuovo giro di vite. Il passaggio è quello che dalle produzioni vicine al romanzo d’appendice – quelle che generavano il fenomeno di binge watching – porta alle serie antologiche fino a nuovi formati, dove la fruizione si fa più frantumata ma allo stesso tempo “amplificata”.
È il caso di TOO OLD TO DIE YOUNG, la serie di Nicholas Winding Refn presentata a Cannes 72 lo scorso maggio e approdata su Prime Video il mese successivo, diventando uno dei casi più significativi della stagione. Dieci “volumi” di durate diverse (dai 30 ai 90 minuti a puntata, per un totale di 13 ore di visione) dove a farla da padrone è la composizione dell’immagine, pensata dal regista danese con cura e maniacalità certosine, mentre la trama, dal canto suo, si ritrae, facendosi piuttosto essenziale e cedendo il passo a un procedere episodico per archetipi aperti. Come avveniva in Drive (2011), Only God Forgives (2013) o in The Neon Demon (2016) è infatti lo schema di genere a fare da scheletro, a offrire un’impalcatura narrativa di massima, lasciando allo spettatore il compito di edificare sui silenzi, le pause o addirittura le aporie narrative la propria interpretazione, e all’autore il tempo per dedicarsi a ciò che più gli interessa, l’estetica. Un’estetica che diventa quindi radicalmente diversa rispetto a quella “esornativa” (alla Wes Anderson per intenderci), e che, facendo tesoro dell’esperienza postmoderna, non può che mostrarsi polisegnica, sincretica e, in fin dei conti, psicanalitica. Non è un caso infatti se guardando al girato di Refn vengono in mente – a parte l’inevitabile accostamento con la tradizione lynchiana e jodorowskiana – anche Von Trier (si pensi a The House That Jack Built, 2018) e, perché no, Cronenberg. E peculiare è anche il modo con cui – tra il serio e un calcolatissimo faceto – Refn consiglia di fruire il suo lavoro: in maniera discontinua, interrompendosi e riprendendo la visione da dove pare allo spettatore. Tanto che alla Croisette ha presentato due episodi centrali (vol. 4 e 5), come a ribadire che l’obiettivo creativo e fruitivo finale è quello di un continuum dilatatissimo, quasi un subsconscio filmico, da cui lo spettatore può entrare ed uscire a piacimento.
E nel teatro? Anche qui la riflessione su un’estetica significante e simbolica torna a prendersi il centro della scena: l’immagine del campo da golf di Melilla mentre un gruppo di migranti cerca di scavalcare la recinzione, analizzata dagli Agrupación Señor Serrano in Birdie è solo uno degli esempi possibili (per chi se lo fosse perso, può recuperare qui). Se infatti il teatro sta vivendo un floridissimo periodo di meta-poetica, che dalla riflessione sui device si espande alle modalità di rappresentazione (si pensi a qualunque lavoro di Milo Rau, giusto per citare l’eccellenza) e a un rinnovamento del proprio canone estetico, il merito è forse dovuto proprio a quei linguaggi scenici che fondano le proprie specificità sull’aspetto visivo piuttosto che verbale, facendo di quest’ultimo, se presente, uno strumento del tutto anti prosaico. La danza contemporanea, quindi, ma soprattutto la performance, generi ancora guardati con sospetto dallo spettatore comune, ma che sempre più penetrano le programmazioni cittadine, offrendo al pubblico forse le esperienze più interessanti della stagione (si pensi alla fruttuosissima cooperazione tra Zona K e Triennale a Milano, con nomi che vanno da Sciarroni a Berlin, da Rimini Protokoll a Lola Arias).
E se c’è un festival teatrale che più degli altri in questi ultimi anni ha puntato su questi tipo di linguaggi è certamente quello di Santarcangelo di Romagna, che anche nell’ultima edizione diretta da Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino ha presentato una proposta quasi interamente performativo-coreutica. Una scelta, più che Slow & Gentle come vorrebbe il titolo della manifestazione, piuttosto risky, se non altro perché passibile, almeno sulla carta, di un certo disimpegno, ma che al netto del suo côté modaiolo – e dei conseguenti mal di pancia tra gli addetti ai lavori – dimostra una certa congruenza col contemporaneo e sintonia con l’estetica figurativo-simbolica di cui sopra. Mentre per le analisi più puntuali sul versante coreutico rimandiamo alla recensione di Camilla Lietti su First Love di Marco D’Agostin, su quello performativo (oltre agli spettacoli raccontati qui da Francesca Serrazanetti) vale la pena chiamare in causa due lavori che hanno tenuto banco nella seconda settimana di programmazione: Kiss di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo e Relay di Ula Sickle.
Il primo prende le mosse dall’omonimo film del 1963/64 di Andy Warhol, dove il fondatore della Factory ritraeva una serie di coppie baciarsi per circa 50 minuti di montato. Un video scandaloso e allo stesso tempo politicamente sferzante, dato che tra i baciatori erano presenti sia coppie omosessuali sia di etnie differenti. Così avviene anche nell’esperimento performativo di Calderoni-Caleo (esito di un laboratorio di residenza a Santarcangelo) dove, hic et nunc, un gruppo di ventitré ragazzi si scambiano reciprocamente saliva e, sperabilmente, un po’ d’affetto nella palestra dell’ITC Molinari di Santarcangelo.
Se la domanda di partenza è “nel 2019 un bacio può essere ancora un manifesto?”, a rendere interessante l’operazione non sono tanto le velleità politiche del caso, inevitabilmente depotenziate dal contesto – più che in un festival apertamente schierato, sarebbe stato interessante inserire il lavoro in un ambito meno allineato, come una delle “feste in spiaggia” promosse della Lega – quanto il rapporto tra la durata e la conseguente possibilità ermeneutica dello spettatore. Man mano che il tempo passa infatti si moltiplicano le occasioni di mettere in relazione alcuni elementi che di primo acchito erano apparsi accessori: innanzitutto l’ambiente ginnico in cui si svolge la performance non può non rimandare a una dimensione agonistica del gesto, e quindi, anche se in maniera del tutto asettica, quasi scientifica, a una portata pornografico-voyeuristica del nostro guardare di spettatori. Questione tutt’altro che priva di implicazioni impellenti in un’epoca dove è proprio la pornografia a dettare legge nell’immaginario erotico di buona parte della popolazione.
Anche la fisicità dei performer, caratterizzata da corpi esili quasi tarati sul “modello iconico Calderoni”, fa pensare che l’appetito sessuale di cui sono vestali sia il solo sostentamento di cui hanno bisogno. Certo il dubbio che nel modello di inclusività e fluidità di genere proposti i pingui non siano ammessi si fa sentire, soprattutto perché le continue combinazioni e ricombinazioni modali tra vari partner – rese ancora più esplicite simbolicamente dalla presenza di alcuni cubi di Rubik sparpagliati in diversi punti della scena – fanno venire in mente gli spietati algoritmi associativi di Tinder, una traduzione in codice del caro e vecchio “chi si somiglia si piglia”. E si potrebbe andare avanti a lungo, cercando di stabilire ad esempio se la cura dei costumi realizzati grazie “al sostegno di Gucci”, sia il segno dei tempi che cambiano o la volontà di stabilire una certa coerenza con la contaminazione pop creata da Warhol con la moda. Il tempo infatti, come si anticipava, non manca: addirittura si passa dall’ora e mezza della prima replica alle tre ore dell’ultima (il riferimento a Refn è involontario ma eloquente) ed è lo spettatore a crearsi la propria, personalissima, durata mentre le labbra si incrociano in un loop senza sosta.
Anche la coreografa e performer canadese-polacca Ula Sickle sceglie la reiterazione di lungo corso e la modalità come and go dello spettatore per il suo Relay. Qui per sei ore ininterrotte – si inizia alle 18 con la luce e si termina a mezzanotte con l’oscurità – alcuni performer si alternano nello sventolare una grande bandiera nera, simbolo che vuole richiamare in particolare, a detta del foglio di sala, “le manifestazioni di massa polacche in difesa dei diritti delle donne”, chiamate, per l’appunto, “proteste nere”.
Anche qui, come per Kiss, il pubblico si trova a disporsi lungo il perimetro di una palestra (questa volta quella della Scuola Media Saffi) mentre il drappo scuro continua a passare di mano in mano, in una staffetta perenne a cui fanno da colonna sonora lugubri rumori diffusi da alcune casse poste agli angoli della stanza. L’effetto complessivo, ipnotico e potentissimo, diventa ancora più straniante nelle ore notturne, quando alcuni fari illuminano a frequenza sincopata questa sorta di allegoria insurrezionalista, rafforzando le ombre che l’inquietante apparato simbolico lascia presagire. Tanto che, nonostante il riferimento esplicito in nota, le interpretazioni si fanno molteplici fino a gonfiarsi in polemica: il vento che agita la bandiera, secondo alcuni, non è più quello di un’irrudicibile anarchia volta a combattere l’ottusità e l’autoritarismo (in questo caso antiabortista) del potere, ma richiama semmai, certo evocandoli, i movimenti di ultra-destra che tornano a soffiare vigorosi in Europa. E perché allora non vederci un incessante rito funebre, perpetuato attraverso un moto luttuoso? Come un supplizio di Sisifo coreografato, dove l’essere umano è costretto a piangere la scomparsa dei suoi diritti per mano di una volontà cieca e violenta, capace però di detenere il potere!
D’altronde è proprio nella polifonia e nell’ambiguità del segno che sta il fascino dell’allegoria. Eppure arrendersi all’assunto che la ragione sta solo nell’occhio di chi guarda, non è forse rinunciare a qualunque intenzionalità? La sfida per una nuova estetica simbolica è proprio questa: lasciarsi alle spalle le vecchie accuse di manierismo, o peggio, di qualunquismo, che sfociano nella parodia e nell’autoreferenzialità, e cercare di fare della propria visione, uno strumento di riflessione pieno, se non apertamente polarizzato, capace di assumersi, se necessario, le responsabilità artistico-ideologiche del caso.
Corrado Rovida
Kiss
con Andrea D’Arsiè, Zoe Francia Lamattina, Michela Depetris, Costanza Nani, Beatrice Boschiero, Alex Paniz, Ida Malfatti, Claudia Veronesi, Emilia Verginelli, Clara De Pin, Martina Bacher, Bruno Camargo, Umberto Ghidini, Brianda Maxciel Carreras Santana, Umberto Zanette, Paolo Vanoli, Nicole Guerzoni, Federico Morini, Giuseppe Maria Martino, Maziar Firouzi, Orlando Izzo, Ilenia Caleo, Silvia Calderoni
da un desiderio di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo
produzione Santarcangelo Festival, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Motus
con il sostegno di Gucci
con la partecipazione di Dialoghi, Residenze delle arti performative a Villa Manin
progetto sostenuto da Boarding Pass Plus Danza
Relay
concept, coreografia, performance Ula Sickle
sound concept & design Yann Leguay
live sound Attore di Aymeric de Tapol
Sidney Barnes, Amanda Barrio Charmelo, Nathan Ooms
assistenza drammaturgica Antoine Neufmars
produzione Caravan Production
con il supporto di Kunstenwerkplaats Pianofabriek & Nuit Blanche 2018
Spettacoli visti a Santarcangelo di Romagna nell’ambito di Santarcangelo Festival 2019