Quando di un (bellissimo) racconto si fa teatro, bisogna fare un passo indietro e provare a lasciargli voce. Renato Sarti, che ha curato la regia di Bartleby lo scrivano, sa bene che può fidarsi del testo di Melville e della sua capacità di parlare agli spettatori. Del resto il nucleo più profondo del racconto si presenta già tutt’altro che univoco, nel suo lasciare al lettore ambiguità e ampi confini di riflessione. E il teatro, più ancora della lettura, si rivela allora il luogo idoneo per rivolgere alla comunità degli spettatori un appello all’interpretazione.
Sul palco del Teatro della Cooperativa, la storia ci viene raccontata da un ben visibile Narratore (il bravo Luca Redaelli): è l’avvocato di Wall Street, presente per tutta la piéce, che rievoca la vicenda che ha colpito il suo studio: dal suo corpo, dalla sua voce e dai suoi gesti prendono allora vita, insieme al se stesso del passato, Turkey, Nippers, Ginger Nut e gli altri personaggi che condividono l’ambiente di lavoro con il neoassunto Bartleby. Questi (Gabriele Vollaro) fin dal suo ingresso in scena si distingue dai colleghi per la voce ma ancor prima per l’aspetto stralunato: magro, vestito di bianco, presenza quasi spettrale, parla poco, dando l’impressione di essere più un lugubre soprammobile che una persona vera. Le sue caratteristiche sono l’immobilità e il ripetersi spesso, soprattutto in quella che diventerà la sua pressoché unica e celebre battuta: “Preferirei di no!”.
La parabola del giovane è infatti nota: da lavoratore fin troppo solerte diventerà presto un parassita che non esce mai dall’ufficio ottemperando a un’unica mansione: contemplare la luce che filtra da una finestra affacciata a un muro cieco come il mondo che lo circonda.
Sarti costruisce una scenografia di pesante grigiore, un habitat in voluto contrasto con la natura diafana del personaggio di Bartleby. Al centro della scena un unico significativo oggetto: una scrivania di vetro divisa in due da uno schermo verticale (nel testo originale, un paravento), che separa lo spazio dell’avvocato e quello dello svogliato scrivano. Sullo sfondo tre “finestre” di vetro smerigliato, offuscate come l’ambientazione esterna (“una vista noiosa, priva di vita”), segno paradossale di chiusura, separazione, buio.
Tutto in scena si ribalterà, seguendo l’ineluttabile piano inclinato della vicenda: le finestre, girate da Vollaro, diventeranno parti di un recinto nero e la scrivania formerà una strana lugubre croce. Non ci sarà più niente da fare per bloccare la parabola tragica di Bartleby, e non ci riuscirà neppure l’avvocato, che pure comprenderà progressivamente il reale portato della situazione.
È proprio a quel personaggio – alla sua capacità di raccontare in modo problematico il sistema lavorativo di oggi – che la regia affida il cuore della sua interpretazione: quell’avvocato che cerca la via più facile, che prende atto delle aberrazioni del sistema in cui prospera non ci assomiglia terribilmente? E noi, saremo in grado di salvare quel Bartleby la cui vista repelle come quella di un mostro, o di un martire?
Lidia Melegoni
Bartleby
di Herman Melville – traduzione Luca Radaelli
con Luca Radaelli e Gabriele Vollaro
regia e scenografia Renato Sarti
luci e tecnica Graziano Venturuzzo
musiche Carlo Boccadoro
illustrazione e grafica Roberto Abbiati
coproduzione Teatro Invito | Teatro della Cooperativa