Un germoglio di lenticchia, perso nel mondo degli adulti alla ricerca del proprio posto; un bambino con la “erre moscia” che sogna di diventare un attore; il volto di una generazione. Questa l’immagine con cui si apre Mia mamma fa il notaio ma anche il risotto, lo spettacolo di Filippo Capobianco, vincitore di FringeMI 2024, che combina teatro, musica e poesia, in scena allo spazio WeMi Rizzoli al confine col parco Lambro. La piccola biblioteca che ospita la performance offre all’artista gli oggetti di scena essenziali: un leggio con un grande libro che contiene il racconto dal linguaggio favolistico intorno al quale si sviluppa lo spettacolo, una pila disorganizzata di testi di varia natura (da Lo Hobbit a La grande storia delle invenzioni), una piccola sedia dalle trame colorate e alcuni scaffali pieni di volumi che contornano la narrazione e ne diventano parte integrante.
«Io sono qui con un compito preciso, per farla finita, per chiudere. Quindi grazie ma no, grazie». Una premessa che introduce al pubblico la storia di Moscerino, un bambino sveglio, cresciuto all’interno di una “famiglia importante” e che da essa cerca di emanciparsi nel tentativo di trovare un modo tutto suo per affrontare la vita. La madre di Moscerino è una figura assente, rievocata in scena da appelli diretti a un personaggio che aleggia ma non diventa mai fisico. Il vuoto così creato viene colmato dalla presenza insistente dei libri: sono questi a indirizzare il protagonista nelle sue scelte, a offrirgli le risposte di cui ha bisogno nei momenti più rilevanti della vita e a consolarlo nei periodi di smarrimento attraverso la voce silente di Biblì, la sua biblioteca. Il ragazzo costruisce quindi intorno a sé una bolla dove le sue parole hanno potere, sono uno spazio di reclusione in cui la sua esistenza acquista rilevanza e in cui può stare bene al riparo dal mondo esterno, dove tutto «fa schifo».
Moscerino cresce e matura, così anche i suoi bisogni si trasformano. Eppure Biblì resta con lui, trovando sempre il libro giusto per ogni occasione. Così, all’età di diciotto anni, la fedele biblioteca gli fa trovare un libro di viaggi, suscitando in lui l’urgente desiderio di fuggire, di lasciare il suo spazio sicuro e scovare nuovi luoghi da abitare, anche se la nebbiosa Pavia, una città «umida e difficile da amare», è ormai diventata per il ragazzo sinonimo di casa. «Ogni fiume ha la città che si merita» dice l’attore; e il Ticino ha Pavia, imperfetta quanto il fiume che la attraversa, «porto di giovani innamorati» dal passato solenne. Il sogno di abbandonare questo luogo di contraddizioni si scontra però con la disillusione del mondo adulto: una realtà fatta di lettere di presentazione, curriculum vitae esasperati al limite dell’assurdo e colloqui di lavoro in cui sotto l’apparenza della professionalità si cela l’ipocrisia della forma. Così, Moscerino, che tanto aveva desiderato lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare, si ritrova a rimanere imbrigliato nella sua zona di comfort. Ancora una volta, Biblì giunge in soccorso, indirizzandolo allo studio della fisica: un linguaggio eclettico, in grado di descrivere attraverso un polinomio i segreti dell’universo visibile e che, come canta lo stesso Filippo, «ha i suoi burocrati e i suoi artisti». È la matematica che permette a Moscerino di capire cosa sia l’amore: un’assenza di certezze che lascia spazio solo al dubbio e al mistero illogico del possibile. Irrazionale è infatti il sentimento che spinge il ragazzo, ormai diventato professore di fisica, a innamorarsi di una “terrapiattista”, che di lì a poco muore per aver rifiutato le cure mediche di cui aveva bisogno.
Così, Moscerino si rivolge ancora a Biblì, ma questa volta l’amata biblioteca non gli fornisce risposte: attraverso una poesia, convince il ragazzo a liberarsi dal suo posto sicuro e a tagliare tutte le dinamiche rassicuranti che hanno accompagnato fin lì ogni sua scelta di vita. Dietro ogni libro che la biblioteca gli aveva mostrato si nascondeva sempre sua madre, rimasta nell’ombra per guidarlo attraverso i testi che aveva raccolto per lui. Lo spettacolo avvia così una riflessione sul rapporto tra generazioni e sul peso che le voci dei genitori hanno sulle esistenze in potenza dei propri figli. Ecco allora che Moscerino chiude il suo racconto con un invito a coltivare queste dinamiche preziose e a trasformarle in poesia: «Se le parole sono un tuo regalo, mamma, non c’è un giorno in cui non le farò sentire».
Claudio Favazza
in copertina: foto di Davide Aiello
MIA MAMMA FA IL NOTAIO MA ANCHE IL RISOTTO
di e con Filippo Capobianco
costumi e oggetti di scena di Martina Lauretta
testi e musiche di Filippo Capobianco
vincitore di FringeMI 2024
Contenuto scritto nell’ambito dell’osservatorio critico di FringeMI 2024