Il 22 luglio è l’ultima serata di Kilowatt dedicata agli spettacoli scelti dai Visionari per questa quattordicesima edizione del Festival. L’innovativo progetto di selezione, ben noto agli operatori del settore, è valso a Kilowatt il premio Ubu ed è riconosciuto come esempio virtuoso di audience engagement.  Chi sono i Visionari? Non sono “addetti ai lavori”, non sono specializzati a vario titolo nella cultura teatrale, il loro compito non è produrre critica. Sono semplici cittadini, chiamati a mettersi di fronte a un’opera (inviata loro in formato video), a guardarla con attenzione e poi a scegliere.
Il loro è spesso uno sguardo libero e diretto, non condizionato dalla conoscenza pregressa delle poetiche o dei nomi à la page: uno sguardo capace di vedere dove un addetto ai lavori non vede. Trenta spettatori ‘speciali’, dunque, che nel corso dell’anno si incontrano ogni settimana da dicembre a maggio (per l’edizione di Kilowatt del 2016 hanno guardato più di 300 video promo) usando il loro tempo libero per discutere di teatro.  Durante il Festival – ogni mattina dopo le rappresentazioni – sono previsti momenti di confronto con critici ed esperti, i cosiddetti ‘Fiancheggiatori’, per  commentare le messe in scena del giorno precedente.

Quest’anno i Visionari hanno selezionato nove compagnie. All’ingresso di ognuno dei nove spettacoli, un Visionario motiva la scelta effettuata dal gruppo, che può dipendere da questioni di forma, di contenuto, o dalle ragioni più disparate. Alcuni teatranti storcono il naso trovando in queste decisioni un gusto un po’ mainstream, tra tematiche che vengono ritenute compiacenti per il pubblico e mis en éspace più convenzionali rispetto al teatro che viene presentato nei festival ‘di ricerca’. Ma fa parte del gioco: tra i Visionari ci sono operai, casalinghe, studenti, pensionati e commesse, e sta a loro “sporchissimi di mondo” – come scriveva Luca Ricci nel 2009 – decidere cosa e chi parla al pubblico di oggi.

Che tipo di spettacoli sono stati selezionati quest’anno? Difficile rintracciare un fil rouge, una poetica comune, un’estetica dominante. Ma alcune tematiche tornano da una proposta all’altra, come fossero urgenti questioni da porre alla contemporaneità.
Della morte, per esempio, si parla molto seppur in modi molto diversi tra loro: senza esagerare e con il sorriso sulle labbra con il Teatro dei Gordi (leggi la recensione); di una morte che è generatrice di senso per la nostra vita grazie all’Idiota della Compagnia Dionisi; di estetica della morte per mezzo dei quadri della pittrice Remedios Varo riprodotti tra danza e marionette da Coppelia Theatre. Una morte che cambia forma, che è capace di far ridere, riflettere o solo di farsi ammirare nel suo oscuro e misterioso fascino. Non mancano all’appello altri ‘temi caldi’, come la questione dell’identità e del genere: la Compagnia Körper racconta il corpo e la sessualità all’epoca dei social nerwork in Aestethica – Esercizio 1; Fa’afine di Giuliano Scarpinato parla di un giovane italiano desideroso di appartenere a un terzo sesso riconosciuto solo a Samoa; in Perfetto Indefinito di Dehors/Audela identità mancata e razzismo si mescolano in un esperimento tra performance, installazione e video-teatro.
Si trovano anche frustrazioni tutte contemporanee, riflessioni su un mondo fatto di cliché (Ilenia Romano nel suo Onewomanclichéshow), desideri di fuga dalla realtà (Fuorigioco di Proxima Res) e persino una rappresentazione non buonista nè consolatoria dell’autismo (Angela di Bottega Lab).

Spettacoli, dunque, che propongono interrogativi complessi, che non cercano il disimpegno ma anzi sembrano chiedere al teatro di affondare il coltello nella piaga. Il pubblico – a giudicare dai calorosi applausi alla fine di ogni spettacolo – sembra condividere il medesimo desiderio, e dimostra un coinvolgimento emotivo assente altrove. Quella dei Visionari risulta una scommessa vinta, che prescinde dal valore delle singole messe in scena: la loro programmazione è espressione di una collettività, e destinata a una collettività. In tempi di individualismo e autoreferenzialità non è cosa da poco.

Camilla Fava