Note in risposta a Camilla Tagliabue
Venerdì 1 aprile, sulle pagine “Secondo tempo” de “Il Fatto Quotidiano” è apparso un lungo articolo di Camilla Tagliabue dal titolo Classici concentrati, il teatro messo a dieta.
Una pagina intera dedicata al teatro su un quotidiano nazionale è sempre una buona notizia, specialmente se – come in questo caso – il ragionamento è di largo respiro e tenta di sottrarsi alle imperanti logiche della mera presentazione di eventi. Tagliabue si prende il tempo per riflettere sulle sorti dei classici sulla scena di oggi: argomento di grande interesse e solo raramente trattato in maniera profonda e distesa.
L’idea interpretativa sottesa all’articolo mi pare, tuttavia, sorprendentemente conservatrice e sembra riportare bruscamente indietro gli orologi della critica letteraria e teatrale: Tagliabue suggerisce che la diffusa abitudine ad adattare, riscrivere e rielaborare i classici sia “una perniciosa tendenza contemporanea” e si lamenta di non poter mai assistere a una “messinscena originale, se non integrale, dei classici”. Nell’insieme l’articolo lascia trapelare la sarcastica indignazione della Tagliabue, che giudica l’adattamento dei classici “una moda” a cui nessuno si sottrae: e i verbi scelti sembrano indicare un brutto vizietto “che dilaga”, in cui “si casca”, a cui “non si sfugge”.
Vale allora la pena ricordare tre cose, che ci parevano assodate. La prima è che la pratica della riscrittura ha lunghissimo corso e che alcuni dei testi più interessanti del Novecento nascono proprio dall’operazione di radicale ripensamento del classico: anche T.S Eliot e Sartre, von Hofmannsthal e Cocteau hanno osato allontanarsi da quello che viene definito “il canovaccio doc”.
E ci piacerebbe sapere in quale gruppo Tagliabue collocherebbe la travolgente partitura scenica del Living Theatre ispirata ad Antigone (ridottissima e scarsamente attinente all’orginale sofocleo): tra gli adattamenti delle “scapigliate compagnie di artisti” o tra le riscritture dei “rampanti drammaturghi post-post-moderni”?
La seconda questione da non dimenticare è che fare teatro significa (o dovrebbe significare) innanzi tutto entrare in relazione con il proprio pubblico e il proprio tempo. La lingua del teatro – ha ricordato di recente il Professore di Letteratura Russa Fausto Malcovati – è la lingua degli spettatori nel momento in cui entrano in sala: un buono spettacolo deve rivolgersi qui ed ora al pubblico che ha davanti, non limitandosi a mostrare, come da una teca, la parola del passato. Proporre un classico impone quindi di interrogarsi a fondo sulle istanze presenti nel testo, ma anche sul mutare di quelle istanze: e dove si registra una distanza si dovrà provare, con intelligenza, a colmarla.
Questo hanno tentato di fare – certo con alterni risultati – gli artisti citati e accostati alla rinfusa nell’articolo (Michele Santeramo, Veronica Cruciani, Motus, Roberto Rustioni, Claudio Autelli, Macelleria Ettore, Davide Palla collocati nella stessa macedonia di Tom Stoppard e Botho Strauss), ma anche altri come il gruppo Anagoor. Hanno cercato di capire chi siamo diventati noi spettatori delle serie televisive e utenti degli smartphone, noi dall’attenzione intermittente e dall’immaginario saturo, non limitandosi a giudicare ex cathedra “i gusti fast-food del pubblico più acerbo”. Hanno, in definitiva, provato ad interrogarsi sul proprio tempo, attraverso le storie e le parole di altri.
E qui vengo alla terza, e ultima, argomentazione. Un classico non è tale perché ci è stato consegnato all’interno di un canone: un classico si dimostra tale proprio per la sua capacità di generare ripensamenti, tradimenti, scritture. Altrimenti resta parola morta.
Il professor Wilamowitz (proprio il rigoroso filologo che attaccò Nietzsche per La nascita della tragedia) nel 1908 fu ospitato a Oxford per due memorabili lezioni. In questa sede, per parlare dello studio dei classici, Wilamowitz utilizzò l’immagine omerica dei fantasmi che hanno bisogno del sangue umano per poter parlare: allo stesso modo gli autori antichi necessitano del nostro sangue di viventi – di studiosi, osservatori, artisti – per poter continuare a trasmettere il loro messaggio. Ringraziamo allora, e di cuore, le scapigliate compagnie di artisti che continuano a dare sangue per i nostri amati fantasmi.
Maddalena Giovannelli