Il drammaturgo Jón Magnús Arnarsson sembra travalicare la dimensione nazionale sin dalla sua biografia. Figlio di attori molto conosciuti in Islanda, si diploma come attore alla Commedia School di Copenaghen, e fonda a Reykjavík il Golden Gang Comedy Group, che propone stand up comedy in inglese, accessibili quindi al pubblico dei turisti in città. Diventa campione islandese di poetry slam e partecipa al torneo europeo, eseguendo le sue performance, nuovamente, in lingua inglese. 
Anche il resto della famiglia ha importanti legami con l’estero: la sorella Sólveig Arnarsdóttir Arnarsson in Germania è una nota attrice del piccolo schermo, e il fratello Thorleifur Örn Arnarsson dirige diverse opere che vengono rappresentate alla Volksbühne di Berlino. Per quest’ultimo, Jón Magnús Arnarsson cura una recentissima traduzione e rielaborazione in islandese del Romeo e Giulietta shakespeariano, che viene messo in scena nel settembre 2021 all’Icelandic National Theatre. 

Sarà forse anche per queste ragioni che con Skin Deep, la prima drammaturgia di Jón Magnús Arnarsson si ha la percezione di essere parecchio lontani dall’Islanda, più vicini forse a un territorio neutrale, privo di riferimenti locali. Come del resto afferma lo stesso Arnarsson all’interno del testo, siamo in teatro, una «black box, designed to keep out all light. Except artificial. Otherwise it’s pitch-black night». 
Il teatro, rinchiuso nel continuo ripetersi delle sue prove, è un cuore pulsante oscuro, che nella sua intimità taglia ogni legame con l’orizzonte che lo circonda e ospita. E così, le enormi distese di neve che sovrastano il nostro immaginario legato all’Islanda, in Skin Deep sembrano essere evocate soltanto, ironicamente, quando uno dei personaggi, facendo riferimento a Romeo e Giulietta afferma «For instance, it never snows in Verona…». 

Skin Deep, Reykjavík City Theatre, 2018

Quindi: ci ritroviamo all’interno di un teatro e, privi di altri riferimenti, assistiamo sconcertati all’incontro di due icone della cultura pop come Iron Man e Black Widow, che fanno la loro comparsa sul palco con razzi a propulsione negli stivaletti o attraversando un’enorme ragnatela. Ma siamo anche alla festa in cui due personaggi travestiti da Iron Man e Black Widow si conoscono, si attraggono, flirtano. Ma ancora, poco dopo, siamo nella storia dei due attori che li impersonano, una coppia sul palco e nella vita con una relazione che si va disgregando, in un ciclo continuo che sembra seguire le infinite reiterazioni delle rappresentazioni teatrali. O infine, ci ritroviamo sul palco con due macchinisti, un uomo e una donna, che preparano il set commentando le scene che hanno appena visto («S2: Why don’t they just break up?/ S1: Or take a break./ S2: Or go to counselling./ S1: Or just break up!»). 
Questa costante risignificazione di uno stesso spazio, la ri-condensazione e ripresa di un unico focus, riproposto ogni volta con modalità diverse, si riflette nella drammaturgia che insiste nel rimpallo ossessivo tra l’uomo e la donna, in uno schema di azione e reazione che, con la sua estrema concentrazione, taglia fuori qualsiasi elemento esterno alla dinamica di coppia. L’effetto di straniamento, per un inizio tanto singolare e per i rapidi ribaltamenti di piano, viene così compensato da una narrazione relativamente semplice: dopo una prima fase di corteggiamento, due persone capiscono di essere pericolosamente incompatibili, ma sono ormai dominate da un rapporto tossico che ha occupato ogni piega della loro esistenza.
L’uomo e la donna diventano due perni dialogici, che sembrano esistere solo in virtù della loro opposizione; cambiano invece i costumi di scena, con cui interpretano personaggi diversi, restando, però, sostanzialmente immutati. Iron Man e Black Widow, “Actor” e “Actress”, “Stagehand 1” e “Stagehand 2”, del resto, non acquisiscono mai un vero nome – se non nell’ultima scena – e non ci forniscono mai alcuna informazione di contesto. Due voci scarnificate da ogni descrizione, quindi, che ripercorrono e narrano infinite volte gli stessi approcci e le stesse violenze, ogni volta con nuove omissioni, modifiche, mistificazioni. Un passo a due vertiginoso che ha un’importante tradizione drammaturgica alle spalle, della quale possiamo citare, quanto meno per prossimità geografica e temporale, l’opera del norvegese Jon Fosse, o ancora, il lavoro del drammaturgo scozzese David Harrower. 

Eppure, Jón Magnús Arnarsson dipana il dialogo in una direzione del tutto imprevedibile: in Skin Deep non si tratta, infatti, di seguire i lievi declivi di una conversazione apparentemente banale per cogliere negli scambi cristallizzati il lento propagarsi della violenza. Al contrario, sin da subito l’odio e la delusione sono affermati direttamente, in uno scontro diretto e plateale senza sfumature, proprio come senza sfumature sono i supereroi che gli attori devono impersonare; la degradazione non viene suggerita attraverso indizi, insinuazioni, sintomi secondari, ma è descritta dettagliatamente, più e più volte, con sordide caratteristiche sempre nuove: la dipendenza dalle droghe, la dipendenza dal sesso, il sadomasochismo («which blurred the lines between hate speech and dirty talk»).
A farsi carico delle accuse, delle recriminazioni, delle minacce, è un linguaggio che risulta essere, senza dubbio, l’elemento più dirompente del testo. Con sorpresa notiamo che, lontano da qualsiasi pretesa di naturalismo, questi due soggetti si esprimono attraverso rime, allitterazioni, giochi di parole, riprese e variazioni. L’influenza dei palchi di poetry slam, calcati a lungo dall’autore, appare evidente in un simile, estremo, sperimentalismo stilistico.

Skin Deep, Reykjavík City Theatre, 2018

La peculiare destinazione della slam poetry, infatti, che deve essere declamata dinanzi a un pubblico che poi la dovrà giudicare e votare, ne determina (almeno in linea generale) alcune caratteristiche formali piuttosto precise. La slam poetry tende a trattare temi molto vicini all’uditore, quotidiani, che possano essere colti efficacemente in un contesto pubblico e in forma orale, ma, allo stesso tempo, si avvale di una densità retorica altissima, per attirarlo all’ascolto e spiazzarlo con costanti rimandi fonici. Non si tratta tanto di immaginare un’unica figura retorica particolarmente ingegnosa, troppo veloce, nel quadro di una performance, per essere apprezzata pienamente dal pubblico, quanto di riuscire a protrarla per una buona porzione di testo, reiterandola a distanza ravvicinata e trasformandola quasi in un elemento ritmico («My thoughts whirlwinds,/ of white sheets,/ and wondrous,/ weird weeds»). L’effetto di accumulazione arriva così a creare all’orecchio dell’ascoltatore un effetto parodico o, al contrario, di incalzante emozione. 

Così, quando Iron Man e Black Widow si incontrano per la prima volta, inventano nel loro dialogo rime esilaranti, esattamente come, una volta che l’atmosfera tra loro si è fatta conflittuale, fanno ricorso a consonanze e allitterazioni per colpirsi a vicenda. In un momento particolarmente cupo, il contrasto tra le due posizioni degli attori nel ricordare uno stesso evento prenderà la forma di un inquietante specchio-riflesso tra affermazioni incongruenti, inanellate però fra loro dalle assonanze:

ACTRESS: For Christ’s sake man, just say what you mean!

ACTOR: I was addicted to drama, just like you.

ACTRESS: I wasn’t addicted to anything, but you.

ACTOR: Yeah right. When you caught me,

ACTRESS: when you stopped running,

ACTOR: I hugged you,

ACTRESS: you attacked me,

ACTOR: and we cried needles of ice,

ACTRESS: grabbed my ears and smacked our skulls together,

ACTOR: over the unhappiness of this Christmas night,

ACTRESS: and squealed as you bit my cheek,

ACTOR: and stared into each other’s eyes forever,

ACTRESS: before throwing me to the ground screaming,

ACTOR: while the past ate us alive,

ACTRESS: “this is what you want!” Then kicked my side so hard your foot cracked,

ACTOR: small fingers slid in to a large palm-

ACTRESS: “this is what you disgustingly want hey! Defiler of peace!”

ACTOR: And peace was made between us, in true holiday spirit,

ACTRESS: then you wobbled into the cold. In your long, black, artsy, overcoat.

La sperimentazione fonica si accompagna a un altrettanto forte ricorso a generi diversi. I protagonisti passano dal dialogo al monologo, dalla commedia alla tragedia, dall’intimismo al commento metateatrale, o ancora, cantano in un musical a metà tra West Side Story e una produzione Disney, come viene puntualmente indicato in didascalia. 
Anche i registri linguistici si mescolano con effetti sorprendenti, in un accostamento di elementi aulici a riferimenti pop e a battute dal tenore sfacciatamente basso. Attingendo, in questo caso, dal mondo della stand up comedy, la narrazione sorvegliata e ben costruita viene punteggiata da gag ed espedienti che fanno sorridere anche in virtù dei loro toni decisamente triviali («So we smiled, and danced./ And laughed as we pranced./ I could feel your lance,/ making good of circumstance./ The usual, club clit cock romance»).
L’effetto è quello di un’illimitata libertà inventiva, che apre a immagini impensate anche nelle più solenni dichiarazioni d’amore.

IRON MAN: I love you!

BLACK WIDOW: I love you!

IRON MAN: I love loving you!

BLACK WIDOW: butterflies fly from toe to high-

IRON MAN: from core to sky-

BLACK WIDOW: I love loving you-

IRON MAN: I love hearing me say-

BLACK WIDOW: “I love you!”

IRON MAN: It’s my lovedove cry …

BLACK WIDOW: How your ears slurp it up, I swear I wanna cook them!-

IRON MAN: edame beans-

BLACK WIDOW: elderflower-

IRON MAN: entrails-

BOTH: coffee?

BLACK WIDOW: Cooked to perfection the fire goes out-

IRON MAN: I curl up in cookie dough and cry from delirious happiness!

La prima, evidente scommessa che questa drammaturgia lancia alla regia si situa proprio nella rischiosa resa scenica di simili aperture linguistiche, di grande leggerezza, all’interno della struttura, martellante e sempre uguale, del sempre più torbido e insistito atto di violenza. 
Ma non è l’unica sfida che Skin Deep ci pone, e anzi, sembra proporsi a una sua possibile messa in scena come un indovinello particolarmente ricco e insidioso, situando ogni sua possibilità di riuscita in tutti gli interstizi, tra generi, scene, contenuti, azioni, che abita senza risolvere. Forse la vera difficoltà che ci presenta il testo, infatti, non si trova tanto nella realizzazione dei singoli quadri che lo compongono, quanto nelle zone limitrofe, nelle transizioni tanto ravvicinate e incalzanti da essere parte integrante dell’azione, nelle insistite ambiguità tra finzione e reale, che si compenetrano nelle parole degli attori, nei bruschi scarti stilistici che convivono nella scrittura. Come rendere i rapidi cambi di personaggio, gli slittamenti tra una situazione e l’altra, la contaminazione costante tra i diversi piani del racconto, come confrontarsi con la tematica della violenza di genere che si inscrive in quella della dinamica di coppia e dell’abuso di sostanze, come non appoggiarsi troppo al commento e alle riflessioni dei macchinisti, rischiando di ottenere pesanti parentesi esplicative: sono queste solo alcune delle questioni con le quali è necessario confrontarsi.

Nel frattempo, nella scena finale, intitolata “Optional”, uscendo dall’ultima delle matrioske, arriviamo a conoscere finalmente il nome dei due attori, John e Amy, che ammettono la difficoltà di un ruolo tanto oscuro e sfiancante («AMY: It’s exhausting./ JOHN: Yes./ AMY: Follows me home»). Non è un caso che appaia il nome di John, vicino al Jón dell’autore: in molte interviste, infatti, Arnarsson ha dichiarato di essersi ispirato liberamente ad alcuni episodi della propria autobiografia per la scrittura di questo testo. 
Eppure, neanche in questo caso si arriverà a un ipotetico grado zero, a una possibile verità della costruzione scenica: dopo un momento di apparente sincerità gli attori cominceranno a intessere per l’ennesima volta la loro inutile trama di menzogne. Del resto la loro è una pausa di breve durata: dopo un rapido scambio di false confessioni, vediamo John e Amy indossare nuovamente i costumi da supereroi, rassegnati e pronti a iniziare tutto da capo. 
Cogliendo nel segno, nell’angosciante volontà di ripetere, ancora una volta, lo stesso punto, Jón Magnús Arnarsson conclude la sua opera lì dove aveva iniziato. E mentre già si ascoltano le prime battute degli attori, si accenderanno le luci in sala, e, senza applausi, si inviterà il pubblico a uscire dal teatro, che se ne andrà, ora sì stordito e oppresso, a prendere finalmente una boccata d’aria nel glaciale mondo, fuori.

Teresa Vila


Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto con una mail a [email protected].