Dramma borghese, spettacolo comico, tragedia familiare, satira politica: Blue Eyes (Bláskjár), scritto da Tyrfingur Tyrfingsson (1987) e messo in scena nel 2014 al Teatro Civico di Reykjavík, è un testo nel quale si intrecciano diversi piani, registri e riferimenti. È la prima opera di Tyrfingsson a cui Calapranzi dedica un articolo, all’interno del focus sulla drammaturgia islandese: usciranno altri due approfondimenti, oltre a un’intervista all’autore, per conoscerne la scrittura e le tematiche che affronta. 

Cominciamo dunque ad addentrarci nel mondo di questo giovane drammaturgo a partire da Blue Eyes: la creazione ha come protagonisti un fratello e una sorella confinati da anni nel seminterrato della loro stessa casa, situata nella città di Kópavogur, la seconda più grande e più popolata d’Islanda, nonché luogo natale dell’autore, nel quale sono ambientate tutte le sue pièce. 
Il testo di Tyrfingsson ce li presenta abbigliati con parrucche e costumi, con alle spalle una credenza piena di bottiglie di champagne e intenti a rimpinzarsi di cioccolatini colorati che piovono dal cielo, marca Quality Street, mentre discutono sui Puffi. 
Walter (ninfomane) ed Ella (con disturbi alimentari) sono adulti, ma, allo stesso tempo, hanno atteggiamenti, espressioni e pensieri infantili. La prima scena si interrompe improvvisamente a un certo punto e ricomincia da capo, uguale: stesse battute e stesse azioni. Ecco un primo segnale drammaturgico che ci mette di fronte ad alcune domande. 
Si tratta di un gioco ricorrente di Ella e Walter? Oppure abitano una Kópavogur di un’altra dimensione, dove il tempo si avvolge su sé stesso? L’autore ci dà il benvenuto in una situazione narrativa, ci fa ambientare e poi ci toglie il tappeto da sotto i piedi. Sembra dirci: era una falsa partenza, ora cominciamo davvero. Riviviamo la stessa scena una seconda volta, ma in questo caso gli avvenimenti proseguono oltre il punto dove si erano fermati in precedenza. Ella e Walter continuano i loro dialoghi confusi, eccitati, rapidi e sboccati, saltando da un argomento all’altro.
Questa ripetizione di fatti e parole tornerà ancora una volta: nel finale del testo, dove assumerà un altro significato. La reiterazione non mirerà più allo straniamento, come all’inizio, bensì allo svelamento del meccanismo perverso tra i due, che ripetono le stesse azioni all’infinito.

Blue Eyes, regia di Vignir Rafn Valþórsson, Reykjavík City Theatre, 2014

Man mano che continuiamo a leggere il testo apprendiamo nuovi elementi: il padre di Walter ed Ella, uno degli uomini più importanti e stimati d’Islanda (possiamo ipotizzare un personaggio pubblico, forse un politico, sicuramente un patriota) è morto da poco. Quel giorno ci sarà il funerale e loro non vogliono andarci. Vorrebbero, però, uscire dal loro tugurio, buio e stretto, per andare ad abitare al piano superiore, dove risiede il loro fratello maggiore, Erik.
Quest’ultimo fa la sua comparsa dal “mondo di sopra” per convincerli a venire al funerale del padre. Il suo arrivo è un pretesto per fornirci altre informazioni: scopriamo un passato di abusi sessuali e psicologici inflitti a Ella e Walter dal padre, ai quali partecipava anche Erik. Durante quei momenti, tutti erano travestiti da personaggi delle fiabe: porcellini, lupi, marchesi e principesse. 
Questo continuo movimento della drammaturgia da situazioni surreali e colorate, come i cioccolatini che piovono dal cielo, a piani dolorosamente reali, come il racconto di un padre che stupra i propri figli, è la sfida più appassionante lanciata da Blue Eyes alla sua messa in scena. Occorre una regia mobile, in grado di cambiare continuamente linguaggio, stile, atmosfera, senza strappi e senza manierismi ed evitando la tentazione di indugiare su un unico tema. 

Blue Eyes, regia di Vignir Rafn Valþórsson, Reykjavík City Theatre, 2014

All’interno di Blue Eyes ci sono infatti momenti tragici, scambi di battute esilaranti, riferimenti satirici alla realtà politica e sociale dell’Islanda di oggi e squarci fiabeschi. Un esempio di questo è la scena in cui Ella propone a Walter di trasvestirsi da porcellini, come piaceva al loro padre, mentre Erik indossa i panni di un malvagio Principe Nero. Giocare a travestirsi è solo un altro modo per alienarsi dalla realtà ed evocare una dimensione fittizia nella quale essere protagonisti.
Il tema della fiaba è già enunciato dal titolo del testo, Blue Eyes, ripreso da un’omonima favola islandese, nella quale un bambino dagli occhi blu viene rapito e tenuto rinchiuso in una grotta. Questa analogia con la situazione di Ella e Walter ci suggerisce di leggere il tutto come un’allegoria di qualcos’altro. Qual è allora “la morale” da trarre? 

Alcuni elementi sono semplici da decifrare, in questa favola nera: lo scantinato di Kópavugur, ad esempio, è la metafora della periferia, del degrado e di quella fetta urbana e sociale che rimane nell’ombra.
Ella e Walter rappresentano i figli emarginati della società, abusati ripetutamente dal potere e ormai incapaci di cambiare le cose: «The only difference between our domestic situation and a toilet is the fact that a toilet can be flushed», dice Ella.
Erik e il padre sono invece i rappresentanti ricchi e razzisti delle strutture politico-normative, che vivono ai piani alti e lasciano marcire la periferia nel seminterrato: «I have seven shirts. But why am I able to have seven shirts? Because I live in Kópavugur and not, for example, in… The Democratic Republic of the Congo», esordisce Erik in una delle sue prime battute.
E poi, alcune cose sono semplicemente ciò che sono: come il bidone comunale di colore blu, che compare in scena dall’alto, come un’apparizione sacra.  Sul sito del Comune di Kópavugur leggiamo: «The town’s policy is to ensure that the quality of the waste collection from residents is of a level considered best in the Greater Reykjavik area. All homes should have two bins; a blue bin for plastics and paper, and a grey bin (energy bin) for general household waste».

La comparsa dall’alto del blue bin genera una discussione fra i tre fratelli:

ELLA: Formally. Walter.

WALTER: Even more formal. Ella.

ELLA: Do you recall a bin or any other equipment from Kópavogur council simply appearing here on the living room floor just like that?

WALTER: Just like that? – Absolutely not! We are in the basement of a seven story house. That’s why I’m panicking. And one reacts to panic with serenity. We simply need to relax and rest.

ELLA: Perhaps rest in the bin?

ERIK: What do you mean?

WALTER: We have to use the bin.

ERIK: What?

Ella: A blue bin invades our basement and you’re just going to a funeral.

ERIK: Okay, okay, okay. What should we use it for?

ELLA: Something really important.

WALTER: I think … Inhales deeply through his nose… I want to sexually assault this bin. 

ERIK: No, don’t be so disgusting.

ELLA: What about if we just bin it, you know, in the bin.

ERIK: Blue bin into a black bin? No, that’s immoral.

ELLA: Okay, this is a multifunctional bin that has an important role but we don’t know how we should use it. Do we have to use it?

WALTER: Otherwise how do we know if it’s a bin?

ERIK: What?

Ella e Walter decidono di riempire il bidone con lo champagne ed Erik tenterà di affogarci la sorella, dicendole che è solo spazzatura, mentre in scena risuona l’inno nazionale islandese. 

Che cosa vede, in questo preciso momento, il pubblico dell’isola nordeuropea? Un oggetto che fa parte della quotidianità (il bidone blu), del quale il Comune di Kópavugur si vanta come di uno strumento di civiltà e pulizia, riempito con champagne (un bene di lusso) e in cui un esponente delle classi agiate (Erik) affoga una concittadina fragile (Ella), sulle note di una melodia che inneggia a Dio – il testo dell’inno si apre con «Oh, Dio della nostra terra! Oh, il dio della nostra terra! Lodiamo il tuo santo, santo nome!».
Come tutte le favole, anche Blue Eyes costituisce una metafora, il cui ruolo è quello di insegnare, far riflettere, spaventare, intrattenere ed essere specchio delle porzioni più scomode della realtà. 

Nel finale dell’opera, Erik torna “in superficie”, mentre Ella e Walter prendono una decisione: quella di abbandonare il seminterrato per trasferirsi ai piani superiori. L’ipotesi di un cambiamento concreto si dissolve, però, quando Ella dice al fratello: «You look tired» e il “vissero per sempre felici e contenti” evapora sotto i nostri occhi.  I due rimangono dove sono sempre stati, troppo stanchi per muoversi, senza nessun impeto di ribellione o cambiamento. Walter pronuncia la stessa battuta con la quale si era aperto il testo e poi arriva il buio, all’improvviso. La storia ricomincia, la fiaba dei “bambini dagli occhi blu” si ripete uguale: c’era una volta, ai giorni nostri, un paese lontano lontano, il regno di Kópavogur dove abitavano due fratelli… 

Carlotta Pansa


Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto con una mail a [email protected].