Bologna. Un gruppo di donne, in abiti neri, avanza con passo deciso verso la scalinata del Pincio, accompagnato dal suono stridente di otto trolley. L’ora, quella del tramonto, sembra fissare per un attimo questo incipit di viaggio sullo sfondo della città brulicante traffico e vita. Potrebbe sembrare un’immagine qualunque, ritagliata dai mille scenari dell’ordinario tran tran bolognese, a Porta Galliera, proprio a pochi passi dalla Stazione centrale. Invece non è che lo spunto per l’inizio di Bologna, 900 e duemila,

lo spettacolo itinerante ideato e diretto da Andrea Adriatico, per festeggiare i 900 anni dalla fondazione della città felsinea, celebratosi lo scorso 15 maggio. La proposta artistica, basata sui testi di tre scrittrici segnate da un profondo legame con la città bolognese, si è sviluppata secondo tre tappe-azioni teatrali con il coinvolgimento di sedici interpreti: Porta della Rocca Ostile di Simona Vinci, in scena alla scalinata del Pincio, a Porta Galliera; Bo Bohème di Grazia Verasani, ai Giardini del Guasto; Per amor del cielo di Milena Magnani, nella centralissima Torre degli Asinelli.

L’operazione di Adriatico ha così invitato gli spettatori ad abitare e ad attraversare i luoghi della città, intendendoli come anime pulsanti: “un grande cuore che racchiude al suo interno tanti altri piccoli cuori fatti di ginocchia sbucciate, di saperi, di desideri, di sogni”. Fulcro nevralgico dell’intero progetto è dunque una storia della città “messa in cammino”, al fine di generare una riflessione attorno al senso dell’essere, oggi, concives. Uno sguardo per certi versi estendibile al significato generico dell’essere parte di una città, in un’epoca contemporanea sempre più liquida, per ricercare le voci di chi, nel tempo, ne ha costituito forme e significati; e per interrogare chi ne traccerà sviluppi futuri.

Protagonista della Porta della Rocca Ostile, prima tappa del tour itinerante, una narrazione-flusso che ripercorre la storia della città bolognese, alternandola al racconto della vita di una giovane donna, “la creatura di luce”, giunta nella città felsinea per inseguire un mondo fatto di “portici e chitarre”. Accompagnati da un corteo di viaggiatrici, a cui si aggiunge un corteo di uomini, si ripercorrono, per frammenti, i principali eventi storici della città, dall’epoca in cui i canali di Bologna erano navigabili, agli attacchi austriaci, alla Strage di Ustica e alla Strage della Stazione. Il luogo cambia continuamente volto: si rende scudo e barriera con i fucili puntati nei confronti degli invasori, trasformandosi poi nel primo scenario scorto dalla donna, appena arrivata in città. La giovane raccoglie da terra un libro rosso, forse un piccolo atlante: reca frasi, parole e pensieri scritti dai passanti che hanno attraversato quel luogo prima di lei. “È ancorata alla terra da chi la abita e da chi l’ha abitata. È ancorata dai segni di chi ne diverrà abitante” grida una viaggiatrice, mentre sparge a terra alcuni petali.

Bo Bohème, ai Giardini del Guasto, vede invece in scena Lucia, nome d’arte “Ketty”, una anziana cantante costretta in una sedia a rotelle, e un giovane studente iscritto al Dams, che la trasporta da una parte all’altra del parco con una curiosa moto-biciletta a pedali. Lucia racconta i ricordi della sua “bohème”: prendono così forma le immagini di un passato “glorioso” degli anni Settanta e Ottanta, quando si scendeva in piazza, ci si drogava “nei tempi del candore e della paranoia”. Il racconto della donna sottolinea per contrasto la distanza con la Bologna contemporanea, vittima del presente, e di un’ immobilità che il giovane studente incarna alla perfezione: non sa dire né cosa vuole, né sa motivare la scelta dell’essersi iscritto al Dams. Il ragazzo, continuamente rapito dallo schermo luminoso del suo smartphone, pare privo di volontà e di direzione mentre dirige il movimento della moto-bicicletta. È la donna trainata, invece, a imporre il tempo del racconto: solo l’ordine di Lucia che recita continuamente “luce” e “buio” (quasi a richiamare una certa alternanza tra giorno e notte), determina la direzione dei due. Sono esistenze abbarbicate nei paradossi di epoche distinte: da un lato, l’illusione di un’emancipazione rivoluzionaria; dall’altra, il tempo della disillusione, in cui nulla pare possibile. I due dialogano, ridono, si divertono, diventano amici e si cullano nelle loro contraddizioni.

Per amor del cielo, terza e ultima tappa, si compone come un continuo rimando tra “alto” e “basso”. L’azione consiste nel tentativo, da parte di una gran duchessa di riconquistare la cima della Torre degli Asinelli per scacciare “i ribelli” che l’hanno costretta a restare in basso. Sforzo destinato a restare vano: gli invasori, posti sulla balconata della torre, non si placano, promettono di non abbandonare più quel luogo perché di “loro appartenenza”. Lottano in nome di chi, metaforicamente, ha lasciato traccia tra le pietre dei portici bolognesi: sui foglietti che fanno piovere dal cielo alcuni dei loro paladini: ci sono Laura Bassi, Francesco Lorusso, Umberto Eco, Giuliano Piazzi, Patrizia Vicinelli, Leo de Berardinis, insieme a molti altri. A conclusione dello spettacolo, restano sparsi per terra i foglietti destinati a confondersi con quel luogo, mentre nuvole di fumo rosso e blu si spargono al di sopra della torre: gli spettatori si fermano, li osservano e ne prendono qualcuno, quasi avessero scoperto un tesoro del tutto inaspettato.

Non stupisce che un progetto articolato come quello proposto con Bologna 900 e duemila costruisca la propria trama drammaturgica in viaggio: c’è il dichiarato intento da parte del regista di mettere in relazione non solo gli universi disegnati nelle tre tappe, ma di porre il pubblico nella condizione di agire i luoghi in transito. Lo spettatore è  dentro ma è anche fuori; si trova ad abitare una micro città nella città, come un puntino sparso nella frenesia; è parte di un corteo che interroga, interrompendolo, il consuetudinario; è lo strappo, è la lente, è la domanda destinata a non  esaurirsi ma a girare continuamente su sé stessa.

Parallelamente, i testi delle scrittrici bolognesi offrono sguardi distinti per raccontare la città felsinea. Tutti, in maniera diversa, riflettono una certa idea di circolarità e di apertura: se le radici storiche di una Bononia anticamente navigabile sono la base da cui partire, scoprendola attraverso gli occhi di una “creatura di luce” continuamente in viaggio, il movimento ondivago e imprevedibile di una moto-bicicletta espone i paradossi del vivere Bologna oggi, per sfociare poi in una simbolica presa collettiva della torre che, anziché divenire traccia di un modo d’essere, evidenzia il transito simbolico delle epoche per aprire la via al futuro. Diventa chiaro allora, come sia proprio la “creatura di luce”, partita dalla scalinata del Pincio, a inglobare tutti, viaggiatori, passanti, studenti, lavoratori, disoccupati, sognatori, disillusi: sono le persone, sono gli spettatori in cammino a essere il filo che si dipana da una parte all’altra della città per raggiungere i luoghi che recano le trame delle epoche, del loro costituirsi e del loro rendersi come tali.

“D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda” recita un passo delle Città Invisibili di Italo Calvino. Bologna 900 e duemila richiama per certi versi la città come intreccio, come trama che svela ma che al tempo stesso occulta. Lo spettacolo itinerante lascia la parola alle voci di Bologna e alle risposte che, nel tempo, uomini e donne sono riusciti a trasformare nelle tracce visibili della stessa. Ma non si ferma qui: perché al mostrarsi di quelle stesse risposte, la proposta artistica di Adriatico alimenta ulteriori interrogativi attorno a quel che resta inesplorato, incompiuto o atteso. In altre parole, Bologna 900 e duemila lascia aperta la via alla ricerca. Il transito, un’altra volta ancora, ne traccerà il divenire.

Carmen Pedullà