di Hanif Kureishi
regia di Ana Shametaj
visto al Festival Tramedautore
Piccolo Teatro Grassi, Milano_16-17 settembre 2013
Amina è una giovane pakistana che vive a Londra, immigrata di seconda generazione. Divisa tra il legame alle tradizioni familiari e l’amore per il ribelle “moderato” Haroon, finirà per avvicinarsi ad alcuni attivisti del Fronte Giovanile Asiatico, più inclini alla lotta violenta contro le istituzioni.
Borderline nasce nel 1981 dalla penna di Hanif Kureishi come grido di protesta della comunità pakistana di Southall, quartiere multietnico di Londra, nei confronti dell’Inghilterra razzista e conservatrice di Margaret Thatcher. Eppure, poco o niente di questo fervore politico è stato trasmesso al pubblico del Piccolo Teatro di Milano nella versione presentata al Festival Tramedautore, prodotta grazie a una collaborazione tra l’Università Statale di Milano, il Teatro Piccolo Orologio di Reggio Emilia e la Scuola Civica Paolo Grassi.
Lo spettacolo, diretto da Ana Shametaj, regista neodiplomata alla Paolo Grassi, è portato in scena da una giovane compagnia multietnica, ed è paradossalmente proprio in questo elemento che risiede uno dei primi problemi della rappresentazione. Attori italiani e asiatici interpretano indifferentemente i membri della comunità pakistana, dando così vita a un grottesco cortocircuito: in un testo incentrato sui conflitti e scontri di culture, la goffa imitazione di un accento indiano da parte di un attore italiano non può che risultare una nota stonata. E non è questo l’unico aspetto che sembra minare irrimediabilmente la sospensione dell’incredulità: non bastano una palandrana, una camminata sbilenca sorretta da un bastone e (di nuovo) un accento pakistano più marcato per rendere credibile il personaggio di Amjad, il vecchio padre di Amina.
Nello spettatore resta la sensazione di una forte mancanza di autenticità, complice anche una recitazione discontinua, che per timore di annoiare fa ricorso a uno stile interpretativo eccessivamente enfatico, a volte nevrotico, sortendo così l’effetto opposto a quello desiderato; vengono meno così proprio quell’autenticità e quell’urgenza che costituiscono il punto di forza di uno spettacolo politico. Anche la scenografia e i costumi – muri ricoperti di graffiti anti-sistema e vestiti variopinti – concorrono a lasciare un’impressione di vuota e variopinta apparenza.
Qualche buona intuizione registica è andata così persa in questo colorato carnevale: vale la pena menzionare, tra queste, gli interessanti intermezzi surreali in cui gli attori si muovono furtivamente nel buio indossando le maschere della Thatcher. Ma in uno spettacolo della durata-monstre di più di tre ore non ci si può permettere di dilatare ulteriormente il ritmo e la narrazione, se non a fronte di pesanti tagli sul testo.
Trasportare nell’Italia di oggi un testo difficile, semi-sconosciuto, e così radicato nell’hic et nunc dell’Inghilterra thatcheriana non è certo sfida facile, e ne va dato atto all’intero gruppo; ma temi come il razzismo, la ribellione all’ordine costituito, l’emancipazione femminile, oggi più che mai attuali, meritano forse interpretazioni più militanti e incisive.
Emanuele Mochi
Questo articolo è stato elaborato nel contesto del corso di critica teatrale “Critici in erba”, organizzato dalla Scuola Civica d’Arte Drammatica Paolo Grassi, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano