del Teatro Valdoca
visto al Palazzo del ghiaccio di Milano _ 18-22 maggio 2011
Uno spettacolo-evento, inserito, sembra quasi per caso, nella stagione del Teatro della Luna (che di solito vive di musical ma che quest’anno aveva già stupito presentando il Romeo e Giulietta dell’Atir), e ospitato in uno spazio antiteatrale e imponente, il Palazzo del Ghiaccio.
Si presenta così il Caino del Teatro Valdoca, l’ultima creazione del gruppo di ricerca nato nel 1983 a Cesena per mano di Cesare Ronconi, regista, e di Mariangela Gualtieri, drammaturga.
Il pubblico che lo accoglie a Milano è fatto, per la maggior parte, più che di semplici spettatori, di giovani adepti di questo tipo di teatro. Come in attesa di una liturgia, tutti trattengono il fiato ancor prima che la rappresentazione abbia inizio, quando le sculture di Erik e Verter Turroni, un grande cervo a grandezza naturale, qualche arbusto, una gigantesca testa di Caino in cartapesta e un letto mortuario intagliato nel legno, riposano ancora in silenzio nel grande spazio orlato di altissime, infinite tende bianche lanciate verso il soffitto, verso la divinità. In mezzo, microfoni, cavi e faretti, attrezzi del mestiere, strumenti del palco, qui metafora del mondo nuovo che invade quello vecchio, della tecnologia contro la natura.
Di lì a poco Caino (Danio Manfredini), vestito di una frugale e geometrica tunica femminile nera, testa rasata e occhi ipnotizzati, entrerà dalle quinte trascinandosi lentamente avanti e indietro per la scena. Dopo di lui, primo uomo (nel senso moderno del termine) sulla terra, arrivano mezzi umani rimasti per l’altra metà bestie, che si muovono con l’indomabile danza degli istinti e si votano alla natura, al divino che sentono intorno. Seguiranno le peregrinazioni dell’animo di Caino da Dio all’inferno e poi il suo ingresso nell’umanità. In scena ci sono anche l’angelo che non redime (Raffaella Giordano, ex ballerina della Bausch e fondatrice della compagnia Sosta Palmizi insieme a, tra gli altri, Roberto Castello e Michele Abbondanza, forse qui non sfruttata al meglio delle sue potenzialità), la saggia mendicante (la stessa Mariangela Gualtieri) e infine un Lucifero (Leonardo Delogu, splendido), vestito di bianco e con una primordiale pelle di animale: acrobata, illusionista, tentatore. In fin dei conti umano, troppo umano.
Il pubblico affezionato del Valdoca, che ascolta rapito le prime parole del peccato, pronunciate come ha scritto Franco Cordelli sul Corriere della Sera il 27 febbraio, con “un effetto di ieraticità soffocante, totale”, sa cosa aspettarsi. Non una narrazione, non una storia, non una messa in scena nel senso classico del termine. Piuttosto: visioni, incubi, sogni. La vicenda di Caino secondo il Valdoca è una partitura poetica giocata intorno a frammenti di parole, versi che risuonano a volte violenti, a volte lamentevoli, altre volte più ispirati. Non si spiega, non deve essere spiegata e non vuole spiegarsi.
Vive di suggestioni, è un viaggio, iniziatico, composto da sedici quadri per una scena che diventa una cattedrale dove il Bene e il Male convivono nello stesso uomo. Caino, nel momento in cui rinuncia per sempre al paradiso e accetta di diventare progenitore della stirpe degli uomini, assume i tratti sgranati e paurosi di un quadro di George Baselitz, mentre l’angelo nei suoi momenti più alti sembra spennellato a imitazione di un dipinto rinascimentale. Tra loro c’è l’eterna lotta tra il buio e la luce. Lo stesso buio al quale Caino tenta di non cedere. E non a caso l’eloquente sottotitolo dello spettacolo, scelto dal grande poeta Milo De Angelis, è: Caino, il Buio era me stesso.
Tutto perfetto, tutto eseguito con rigore e afflato, precisione e profondità. Però, a ben vedere, se non si è adepti e innamorati, anche follemente e senza bisogno di fornire spiegazioni, di questo tipo di linguaggio teatrale, sembra talvolta che il simbolo si mangi la parola, la parola si mangi il senso e il senso si divori gli spettatori.
Francesca Gambarini