visto al teatro greco di Siracusa
nell’ambito del VLVIII ciclo di rappresentazioni classiche_ 11 Maggio-30 Giugno 2012
a cura di INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico)
Il nuovo ciclo di rappresentazioni classiche dell’INDA si apre con due tragedie (Prometeo e Baccanti, rappresentate a sere alterne) che coinvolgono due realtà artistiche internazionali d’eccezione: l’architetto Rem Koolhaas per la struttura scenografica e la Martha Graham Dance Company per le coreografie del Coro.
La piattaforma elaborata da Koolhaas è la prosecuzione ideale del semicerchio scenico, una gradinata lignea e tondeggiante speculare agli spettatori. È una costruzione maestosa ed essenziale, il cui forte impatto si accorda senza prepotenza con lo spazio preesistente; può girare su se stessa, rivelando l’intrico ferreo che la tiene in piedi e può aprirsi al centro, come la porta dell’antica skenè.
L’apporto coreutico della compagnia di New York City è forse l’elemento più forte e incisivo di questo ciclo di rappresentazioni: il movimento che non conosce goffaggini né leziosità sembra riportare alla luce il ruolo del Coro come momento di espressione altra rispetto alla narrazione, ma allo stesso tempo ad essa fortemente organico.
Le Baccanti immaginate dalla regia di Calenda sono uno stormo di uccelli neri: i loro mantelli, quando si aprono come ali, rivelano un interno rosso sangue. Le danzatrici si muovono morbide e guardinghe sul palco e scalano i gradini della piattaforma rivelando ad ogni movimento i corpi femminili scolpiti e forti.
Il movimento sorvegliato, le armoniche immagini corali (che sembrano rievocare alcuni quadri pittorici, come La danza di Matisse), le musiche bilanciate – che solo a tratti esplorano i timbri arcaici delle percussioni – non sembrano però portare alla luce la potenza eversiva e irresistibile della febbre dionisiaca. Ed è questa, più in generale, una delle mancanze più importanti dell’allestimento: la potenza di Dioniso non deflagra, contagia le donne di Tebe ma non lo spettatore. Si resta freddi e un po’ affaticati di fronte ai toni declamatori di molti degli attori e del Coro; il testo sfugge inascoltato (anche se la traduzione di Giorgio Ieranò si tiene lontano da tonalità troppo libresche), le scolaresche scalpitano, i lamenti di chi soffre non toccano a fondo. Qualche sorpresa interpretativa riserva invece il Dioniso di Maurizio Donadoni: lo straniero vestito di bianco – arrivato a Tebe sotto mentite spoglie per punire chi non riconosce la sua potenza – si presenta come un capo spirituale new age, usa toni sottili, ironici, in un ambiguo contrasto con le conseguenze terribili del suo agire. Ed è proprio l’ambiguità la sfida di Baccanti: due poli irriducibili – da un lato una divinità potente, ma anche ingiusta e distruttiva, dall’altro chi le resiste, ponendo freni razionali destinati a essere spazzati via – non troveranno soluzione o sintesi nemmeno al termine della rappresentazione. Non lasciano insensibili la forza e la modernità dell’interrogativo, complice anche un luogo che sembra di per sé capace di amplificarlo: il contatto secolare con i luoghi circostanti rende il teatro greco di Siracusa uno spazio sacro, nel senso etimologico di separato dalla quotidianità, dall’abituale fluire del tempo. Eppure le istanze del testo appaiono schiacciate da una regia che avrebbe potuto osare di più, allontanandosi da stilemi di rappresentazione del classico che paiono talvolta troppo lontani.
Capace di integrarsi a fondo con la struttura scenica e ricco di buone intuizioni è il Prometeo di Claudio Longhi. Il regista – reduce dal trionfo del pluripremiato Arturo Ui – si mette alla prova con un testo di grande difficoltà: la tragedia (la cui paternità eschilea è stata messa in dubbio) è statica, monolitica, certamente meno vicina alla sensibilità contemporanea rispetto a Baccanti.
È Massimo Popolizio, ben diretto da Longhi, a scavare con maestria tra le pieghe del testo, a disegnare un protagonista sofferente ma non melodrammatico, a cercare modalità non urlate per esprimere orgoglio e dolore. La rupe dove l’eroe viene legato per punizione di Zeus è un alto carrello di ferro e vetro: l’attore vi resta incatenato senza poter utilizzare nient’altro che la propria voce. Le parole vengono cesellate, emergono a sbalzo, le consonanti insistite diventano armi contundenti (il testo è nella traduzione di Guido Paduano).
Anche gli altri attori (pur con parti ‘minori’) non si fanno schiacciare dall’ingombrante protagonista, ma si ricavano un peculiare spazio di sperimentazione e trovano soluzioni interpretative interessanti. Straordinario è l’Efesto di Gaetano Bruno: a lui spetta inchiodare Prometeo alla sua trappola, martellare per fissare i ganci, eseguire una punizione che non condivide. Grazie alla potente fisicità dell’interprete (che ben conosce chi lo ha visto sul palco con Emma Dante), la scena in cui Prometeo viene issato al carrello resta una delle più forti e riuscite dell’intero allestimento. Ma anche l’Ermes di Jacopo Venturiero è sorprendente: nero di fuliggine – come si addice a chi accompagna le anime nel regno dei morti – sghignazza, vibra di soddisfazione all’idea che Zeus presto si abbatterà su Prometeo con il suo fulmine, percorre scattante il palco con enormi corna sul capo. Il suo, come gli altri costumi, sembrano conferire ai personaggi un aspetto quasi totemico: Longhi ricorda così che a confrontarsi sul palco non sono personalità umane, ma entità divine arcaiche. Per questo anche Io, vittima della violenza di Zeus e trasformata in vacca, si aggira traballante su zoccoli bovini: la sua follia non ha nulla a che fare con la psicologia (la scena, lunga e dalle tonalità troppo urlate, è per la verità la meno convincente dello spettacolo). Nella stessa direzione ctonia e primordiale vanno le musiche, a cura di Andrea Piermartire, eseguite dal vivo: le sonorità quasi tribali guidano lo spettatore verso una fruizione non solo intellettiva, dettano ritmi inusuali, impongono accelerazioni mai scontate.
A cercare di portare conforto alle sovrumane sofferenze del protagonista, le Oceanine della Martha Graham Dance Company: i movimenti scultorei e i costumi color sabbia – screziati di blu– sembrano fondersi con il luogo in un improvviso cortocircuito temporale. A proposito di sacralità e di luoghi dall’eco lontana, vengono in mente le parole di Peter Brook, scritte al termine del suo The Empty Space: “la rappresentazione non è un’imitazione di un evento passato. Una rappresentazione nega il tempo, abolisce la differenza tra ieri e oggi: prende l’azione di ieri, e la fa rivivere in tutti i suoi aspetti”.
Maddalena Giovannelli