Non era previsto di imboccare una galleria di schiaffi, di annaspare nel buio delle attese. Non era previsto che le parole scelte creassero inaspettati cortocircuiti. Mi ritraggo come un mollusco sollecitato da un affilato stimolo esterno, quando si dispiegano davanti ai miei occhi, affusolati e assottigliati di un nero da quinta elementare, i caratteri Trucioli. Impreviste e forse anche troppo audaci – le concatenazioni combinate, le composizioni artificiose di cui è capace una testa, piena di tane letargiche e di buchi da riempiere. Trucioli si innesta prepotentemente nelle estremità della fronte, corrugandole leggermente, avviluppandosi per associazione libera e ostinata a un binomio letto e ascoltato spesso negli ultimi giorni: carico residuale. Mi chiedo se anche i Trucioli che campeggiano sopravvissuti sul tavolo di legno provengono dal mare, da quale sottobosco inascoltato, da quale latitudine remota e taciuta. Pescati da zattere in naufragio, raccolti come erbe infestanti ai bordi degli argini o strappati dal selciato in rovina, di sicuro i trucioli esposti sono il risultato di un’operazione di inedito salvataggio dalla dimenticanza, di custodia benedetta. Il ritrovamento inatteso di qualcosa che non era previsto sopravvivesse – riecheggiando una meravigliosa poesia di Audre Lorde – è attribuibile agli Omini, impegnati a mimare i gesti di moderni netturbini che a furia di raccogliere immondizia finiscono per estrarne oro. Trafugati, sottratti senza precisarne le condizioni, siamo fin da subito informati che quello da cui saremo investiti è una carovana di residui, schegge, barlumi polverosi rovesciati e resistenti alle intemperie. Un vero e proprio rituale della rimembranza laica di scarti trascurabili e indigesti, svolto nella sacralità di un altare spoglio – un tavolo di legno e due sedute sul retro – posizionato al centro del Lavoratorio, ex laboratorio di pelli e di artigianato: mai posto fu più adatto, mi dico. E come ogni liturgia che si rispetti, occorre prima di tutto allestire l’atmosfera, preparare l’impercettibile pulviscolare. Ecco allora che a inaugurare la rapida rassegna è Clima, previsto come tempestoso a causa di un’inarrestabile perturbazione proveniente dalla Scandinavia, che renderà il tutto lattiginoso e rarefatto. Ricalcando le fattezze di girovaghi avventurieri squattrinati, gli attori in scena improvvisano una conduzione dai toni televisivi che oscilla tra i registri esistenziali dell’uno e i tentativi di leggerezza dell’altro, in un gioco di rimpalli e di cambi di temperatura che sarà la cifra attoriale preponderante. Enunciando con chiarezza metodologica l’andamento del nostro procedere in quest’affondo speculativo, in questa catabasi di cerchi periferici, gli interpreti senza nome tratteggiano le coordinate dell’indagine sul truciolo, inteso non solo come residuo della lavorazione del legno, ma come frammento versatile, riutilizzabile e trasversale, metro costitutivo dell’animale umano odierno. «Pieni di frammenti disordinati e sparsi, fatti di trucioli altamente infiammabili»: anche la confusione della mia testa inizia a rivelare profonde voragini da riempire con storie tascabili, camere perennemente sfitte in cerca di inquilini, clandestini, reietti o borghesi che siano.
Immaginando i contorni di una metropoli sporca, ripartita per quartieri di profonda provincia, inizia la rievocazione del viaggio rocambolesco – realmente realizzato dalla compagnia – seguendo le indicazioni grottesche e colorite di un navigatore al femminile, quasi si debba raggiungere un rave in aperta campagna senza lasciare traccia. Attraversando buio, fuochi fatui e cinghiali, ondate di concimi chimici e animali, si delinea una cartografia variopinta dell’Italia on the road: stereotipi viventi eterogenei, popolari macchiette vernacolari, procedendo per strappi regionali, tra conca, panza e dinero.
Giro panoramico concluso, ora è «il momento di arrivare al sodo», di presentare l’inventario dell’umano marginale e sommerso, animato da personaggi precari e estrosi, freaks abietti, esistenze trascurabili e disincantate che si fanno coro frastagliato nella cornice disordinata di un mosaico. Divertenti miniature, ritratti allucinati esautorati dalla Storia memorabile, iconografie caricaturali e impotenti che ricordano le vite dei Santi, l’icasticità dei proverbi popolari. Creature senza tempo, dissacranti e scorrette, sospese nel limbo della rimembranza di chi rievoca la loro storia e che, una volta nominate, vengono sottratte all’oblio. Il tutto ha qualcosa di provinciale e rassicurante, come quando mia nonna di ritorno dal mercato si fermava a osservare la teca stracolma di necrologi e manifesti mortuari, ne sceglieva uno e raccontava alcuni aneddoti per commemorarlo, tenendomi per mano.
E quasi con la stessa loquacità frenetica di mia nonna, ci ritroviamo trascinati in un gioco che si fa espediente narrativo accattivante e partecipativo, le cui regole sono assecondare la pancia e la curiosità per permettere al racconto di proseguire con ritmo. Di fronte alla meraviglia del tavolo in scena che si squaderna all’improvviso, trasformandosi in oggetto da Wunderkammer, in tabellone gigante di una tombolata in famiglia, le storie si incarnano in un passamano continuo tanto da incorporare il pubblico in un rito collettivo dove lo scarto diventa collante mitopoietico. E da questo momento in poi, anche l’atmosfera cambia. Il clima diventa più mite, c’è aria di festa di paese, in una piazza ai confini del mondo dove sembra celebrarsi l’ultimo giorno dell’umanità, dove si scommette su quello che rimarrà, che resisterà negli interstizi del cemento.
Gli attori, con atteggiamento ora quasi da ciarloni circensi, da saltimbanco ambulanti trepidanti di vendere i loro numeri, sono così capaci di instillare nel pubblico una sana fame di storie, di altri trucioli, generando un’ingordigia collettiva, un desiderio di racconto insaziabile. «Riempio i buchi della testa con le vite degli altri» – si dice all’inizio, premonizione dell’incantesimo che ci incatenerà al desiderio di volerne ancora. Come bambini che scalpitano, che coltivano il capriccio di un’ultima favola della buonanotte, di un gioco che potrebbe durare all’infinito.
Metamorfici e camaleontici, capaci di farsi cassa di risonanza degli altri otto trucioli estratti dal pubblico, Francesco Rotelli e Luca Zacchini si lasciano abitare dalle storie ereditate dal loro vagabondaggio, si fanno duttili accogliendo voci dalle cadenze dialettali più diverse, si fanno moltitudine capace di vivificare individualismi inverosimili, profili marginali che in scena ritrovano centralità e spessore. Sembrano camminare lungo i bordi, pronti a inciampare su storie circoscritte che inaspettatamente si fanno resistenti ad ogni epurazione della storia, che riconnettono le solitudini come le comicità più sfrenate a un più largo girotondo di vite.
Una pioggia di trucioli e il sogno di un deltaplano autoprodotto, seguono al truciolo che volevamo non arrivasse mai: fine.
Ma qualcosa di quel gioco meraviglioso che è il teatro, rimane e sconfina il perimetro del palco.
Vedo Marco allungare di soppiatto un truciolo che si è accaparrato dalla scena conclusiva, Joana schiude il palmo per accoglierlo. E lì è racchiuso a riccio quello che resiste. Trucioli che sopravvivono al di là del tempo dell’accadimento teatrale come santini e foto di famiglie nel taschino interno della giacca o nell’inserto trasparente del portafogli. Trucioli che come castagne nella tasca del cappotto, sono amuleti apotropaici per conservare buona salute. Trucioli come talismani scacciapensieri «per sentirsi tutti insieme, meno soli».
Ivana Damiano
foto di copertina: Duccio Burberi
TRUCIOLI
drammaturgia Giulia Zacchini
con Francesco Rotelli e Luca Zacchini
produzione Teatro Metastasio Prato
in collaborazione con Gli Omini
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica