Della triplice identità di Carmine Maringola come architetto-attore-scenografo solo la prima è sostenuta da una formazione accademica: eppure le altre due, di natura fondamentalmente autodidatta, sono le più vitali. E sono infatti le uniche a trovare posto sulla copertina del libro che Vittorio Fiore intitola Carmine Maringola, scenografo/attore. La scena recitante per Emma Dante.
Si tratta di uno dei pochissimi libri dedicati al lavoro di uno scenografo usciti negli ultimi anni e, ancor più, al lavoro di uno scenografo “improprio”, formatosi appunto come architetto e arrivato alla scena da attore. Un vuoto editoriale, quello di questo settore, che non sorprende più di tanto, soprattutto se si considera la marginalità riservata tanto dalla critica quanto dalla ricerca accademica al tema dello spazio scenico. Fa eccezione lo sguardo di Fiore che del rapporto tra teatro e spazio si occupa da anni sia a livello didattico e di ricerca – insegna all’Università di Catania – sia in ambito divulgativo ed editoriale – dirige la colonna Periactoi per Lettera22, di cui fa parte anche questo volume. Con questa pubblicazione, Fiore propone un approccio interpretativo che sembra poter delineare un metodo di lavoro non meno teorico che pratico, e che potrebbe essere facilmente applicato ad altri sodalizi regia/scenografia, andando in questo modo ad ampliare una possibile indagine sui confini delle professioni della scena, sul loro sempre più evidente assottigliamento. Dal punto di vista editoriale, vale la pena a questo proposito sottolineare la riuscita forma di restituzione dei dialoghi tra l’autore e il protagonista della pubblicazione: il parlato di Maringola stampato in rosso si cuce con le parole di Fiore, in una narrazione scorrevole che mantiene l’autenticità e l’ampiezza di vedute dell’intervista, senza la rigidità del cambio di battuta.
È dunque in questa forma dialogica che Fiore ricostruisce l’esperienza formativo/professionale di Maringola, a partire dagli anni degli studi di architettura a Napoli, quando alle mattinate di lezione si affiancavano le sere a teatro; luoghi dove i riverberi politici si facevano sentire, e dove Maringola poteva entrare in contatto in particolare con la “cellula” del Living Theatre. L’interesse verso l’uso del corpo come mezzo espressivo e come mezzo di misura degli spazi si nutre di questo duplice versante, tra la pratica attorale e un contesto accademico né troppo scientifico né troppo astratto. L’identità professionale di Maringola si definisce meglio in un periodo successivo agli studi trascorso a New York: qui gli scambi tra attore, scenografo e architetto si fanno più serrati fino all’incontro con la poetica di Emma Dante nel 2005 e l’ingresso nella Compagnia Sud Costa Occidentale.
Nel sodalizio Dante-Maringola, al termine “scenografie”, di origine classica e finzionale, si preferisce la dicitura “scene”, parola forse più visionaria ma maggiormente legata a un carattere di autenticità. La “scena urbana”, il contatto con la realtà e la lettura critica dello spazio delle città sono elementi fondamentali tanto per le regie di Dante quanto per gli spazi scenici di Maringola, come lui stesso racconta: «ho iniziato a fare teatro fuori dai teatri. Poi ho capito che lo spazio urbano è un bagaglio di suggestioni da portare in teatro». Se i primi spettacoli di Dante sono fortemente legati a una scena vuota, un allestimento spaziale più articolato prende avvio con Cani di bancata (2006) dove macchine sceniche con valenza drammaturgica segnano l’inizio del duplice sodalizio artistico tra Maringola, scenografo e attore, e la compagnia. Ma è soprattutto alla produzione lirica del binomio Dante-Maringola che si dedica la ricerca di Fiore, andando a delineare un atlante degli spettacoli che sono seguiti all’esordio della Carmen – avvenuto nel 2009 al Teatro alla Scala e dove le scenografie erano di Richard Peduzzi: Maringola era impegnato solo come attore. Se questi lavori sono meno noti al pubblico che segue normalmente la ricerca “in prosa” di Emma Dante, sono anche quelli con allestimenti più importanti, dove l’esplorazione scenografica ha trovato maggiori risorse.
Il libro, dunque, distingue con chiarezza lo spazio scenico disegnato per la lirica e l’approccio laboratoriale degli ambienti realizzati per gli spettacoli di prosa, dove l’apparato scenico nasce in sala prove, nella relazione tra gli attori e gli oggetti da loro manovrati, essi stessi “corpi recitanti”. Il dialogo tra la scena del teatro e quella della lirica è tuttavia evidente. Alcuni elementi e temi di ricerca occupano un posto di rilievo nell’immaginario di Dante-Maringola attraversando entrambi i generi: le bambole, i tessuti, le sedie, le cripte, le porte/finestre, le edicole votive. In alcuni casi le citazioni e i richiami sono addirittura espliciti: si pensi alle configurazioni di sedie “degradanti” utilizzate tanto per Cani di bancata (2006) quanto per il Macbeth (2017), a rappresentare il potere del trono e i gradini che permettono di raggiungerlo. O ancora, al tessuto damascato utilizzato ne Le Pulle (2010) quanto ne La Muette de Portici (2012).
A immergersi nelle scene di Maringola, emerge tanto la necessità di stabilire un contatto con la realtà quanto il ruolo attivo e recitante degli elementi scenici: un esempio particolarmente interessante è da questo punto di vista il Feuersnot (2014), dove gli ambienti finzionali nordici dell’opera originale lasciano spazio a una città del sud, rappresentata in modo astratto attraverso decine di sedie sospese nel vuoto e un abaco di finestre di recupero (con un sentore di rovina), disposte su una parete di fondo, in uno spazio nudo che lascia a vista la volumetria del contenitore scenico del Teatro Massimo di Palermo. «Da architetto lo spunto è derivato come sempre dai luoghi reali, che osservo e di cui registro i caratteri vernacolari, il disordine dell’insediamento spontaneo» ci dice Maringola, testimoniando una poetica dello spazio che assume un ruolo drammaturgico e in cui ci troviamo a riconoscere tutto il lavoro della compagnia. Una poetica che dialoga tanto con la realtà quanto con la pratica, nell’inscindibilità di parole, gesti, costumi, oggetti e visioni.
Francesca Serrazanetti