Nell’anno del 120° anniversario della nascita del celebre drammaturgo e poeta partenopeo, la Rai ha proposto al suo pubblico la riedizione filmica del classico di Eduardo, Natale in casa Cupiello. Una «strenna per i telespettatori» trasmessa lo scorso 22 dicembre su Rai 1, firmata alla regia da Edoardo De Angelis e con Sergio Castellitto nei panni dell’intramontabile “Lucariè”.
Natale in casa Cupiello di De Angelis – Castellitto (oltre 5 milioni e mezzo di spettatori, share del 24%, ora disponibile su Rai Play) è simile a quelle versioni “semplificate” dei classici. Illustrate o commentate, con la traduzione a fianco, più corte, più agili, approcciabili.
La sfida, certo, era impegnativa, la strada tortuosa. Quella intrapresa da De Angelis & co. scorre ma appiattisce, racconta senza aggiungere, suggerire, suggestionare. Si è lasciato che il testo fluisse, che gli attori – il cui livello non è in discussione – facessero il loro, senza guizzi, senza uno sguardo, un gesto, una battuta fuori partitura. Senza una vera sfida. Ma se questo in sé non è peccato (forse solo il desiderio di non accendere il confronto con gli illustri predecessori), l’operazione mostra tutta la sua fragilità quando sbaglia, clamorosamente, registro.
Natale in casa Cupiello è una commedia. Una tragicommedia volendo, una farsa certamente: tanti sono i modi, magari anche non ortodossi, per incasellare un testo prorompente, vitale, ironico, denso di quell’ironia napoletana (ed eduardiana) che sempre scende a patti con il dramma. Un’ironia che anche quando non esce vincitrice – in Eduardo accade spesso – rimane incollata addosso allo spettatore, diventa cifra esegetica del testo, della poetica, della vita, che per De Filippo non è altro dal teatro.
E invece, nel film per la tv che la Rai produce a distanza di 43 anni da quel classico di modernità e godibilità assolute che è la trasposizione del 1977 (con Eduardo e Luca, Pupella Maggio e la stessa Marina Confalone) e 58 anni dopo la versione originale, quella di commovente perfezione del 1962, questa dimensione ironica, questo segno stilistico mancano terribilmente. Si ride poco, pochissimo, quasi mai. E non nella prima parte del film, ossia in quel primo atto che, da quando Lucariè si alza a quando Concetta sviene e il marito grida «è morta muglierema», è un lungo piano sequenza di magistrale ed equilibratissima lotta tra la speranza e la miseria, la vita e la morte, la comicità e il dramma.
Il melodramma certamente percorre le vene dell’opera originale, ma qui scavalca tutto il resto, ed è macchiato di un neorealismo poco emozionante, senza bluff. Concetta-Marina Confalone che, prima del pranzo della Vigilia, finisce il rosolio, da sola, in camera, ballando come a dimenticare tutti i pensieri, è un momento di liberazione da una pesantezza generale della regia, spesso inconcludente, fissa, poco in ascolto dei personaggi. Nessuno accusa Castellitto di non avere la faccia di Eduardo, che sola bastava a scatenare una, dieci, cento emozioni (e reazioni) tanto in chi recitava con lui quanto nel pubblico. Ma avere dimenticato in camerino il riso amaro eduardiano è una perdita non sopportabile e davvero poco giustificabile.
Se questo è un primo passo che vedrà il servizio pubblico televisivo tornare alla stagione educativa dei grandi sceneggiati o valorizzare il patrimonio teatrale italiano, ben venga. Soprattutto oggi, con i teatri chiusi a morte e la sofferenza del mondo dello spettacolo, di cui non sappiamo chi si farà carico. Ma allora, sulla prima rete – sì, proprio lì, dopo il quiz campione di ascolti che tramortisce gli italiani e fa ritardare l’inizio della prima serata alle 21.40! – si abbia il coraggio, tra una pubblicità e l’altra, di mandare in onda gli originali (ora su Rai Play), o magari la recente messa in scena di Antonio Latella, che di Natale in casa Cupiello ha offerto una coraggiosa, non per forza condivisibile, rilettura. Senza paura della complessità e senza cedere alla comodità.
Francesca Gambarini
foto di copertina: Gianni Fiorito