un progetto di FuoriCorso Teatro | ispirato ad “Amleto” di William Shakespeare e altri fatti minori | di e con Nicolò Valandro e Gianluca Dario Rota
Quattro telefoni vintage, un tavolino, una lampada da scrivania. L’atmosfera che accoglie gli spettatori di C’è del marcio nella panda ricorda quella di un centralino degli anni ’50. Ma non bisogna andare molto lontani nel tempo per rintracciare i fatti da cui prende avvio questo corto teatrale. Nell’estate del 2015, due accadimenti sconvolgono le vite degli attori Nicolò Valandro e Gianluca Dario Rota: l’incidente stradale su una Panda dei genitori del primo e un’inaspettata frase d’affetto pronunciata dal nonno dell’altro. È l’inizio di una riflessione sulla figura del padre e della madre. Il primo confronto è quello con Amleto, con la figura dello spettro e con la biografia di William Shakespeare. Per una sola lettera Hamlet si discosta da Hamnet, il figlio del drammaturgo morto ad 11 anni nell’agosto 1596. Le storie sono diametralmente opposte, se nella realtà un padre ha perso il figlio, nella finzione del teatro un figlio ha perso suo padre. La distanza insanabile è sì quella tra vita e morte ma anche la difficoltà di comunicare con gli adulti a noi più vicini, quell’impossibilità del dare voce a segreti, emozioni, esperienze che si vorrebbero condividere. Per cercare di ridimensionare questo strappo – ci raccontano gli attori – ad Otsuchi, in Giappone il wind telephone collega il mondo dei vivi a quello dei morti. Chiunque, infatti, in questa cabina può parlare con i propri cari defunti, affidare al vento pensieri mai espressi. Trilli dei telefoni e voci squillanti si diffondono allora nella sala insieme a un denso fumo bianco: sono le parole di persone comuni che lasciano un messaggio a una madre o a un padre. Le storie dapprima ben udibili si confondono e si mischiano mentre in sottofondo si distinguono le note di My Best Dress dei Florence & The Machine. A quel punto ci si ricorda, grazie all’invito finale dei due attori, della presenza di una cabina telefonica nel foyer del teatro: un luogo in cui ogni spettatore potrà dire ciò che non ha mai avuto il coraggio di confidare ai propri genitori.
Jasna Camilla Grossi
Cosa lega realmente i figli ai propri genitori? È possibile colmare un’assenza attraverso la rappresentazione? Sono queste le domande da cui muove l’esperimento teatrale di Nicolò Valandro e Gianluca Dario Rota. Punto di partenza è l’Amleto di Shakespeare, termine di paragone inevitabile per chiunque voglia affrontare il rapporto padre-figlio nella storia del teatro. L’opera si apre con la morte della figura paterna e il desiderio di vendetta che lo spettro del re semina in Amleto. Anche la vita privata del Bardo, ci ricordano gli attori, è segnata da una perdita affettiva importante, quella del figlio Hamnet, nome dalla chiara assonanza con il protagonista della tragedia danese. Forse, Shakespeare, attraverso lo strumento teatrale, non ha fatto altro che cercare un mezzo per poter dialogare di nuovo con suo figlio. Un tentativo affine nelle intenzioni e molto vicino ai giorni nostri è quello di Itaru Sasaki, che, per parlare con il cugino defunto, nel 2010 ha installato una cabina telefonica nel proprio giardino. Un modo per esorcizzare la morte di una persona cara. Dire quello che non è stato possibile dirsi. Su questa linea si svolge la performance, che invita gli spettatori a rispondere al quesito: cosa diremmo ai nostri genitori che non siamo mai riusciti a dire ad alta voce? Ascoltiamo confessioni di marachelle adolescenziali, semplici dichiarazioni di affetto, parole per un padre che non c’è più. Entriamo così nelle vite di altri, che potrebbero essere le nostre, prendendo parte, anche noi spettatori, a questa azione catartica che elimina le gabbie in cui rinchiudiamo i nostri sentimenti e le nostre emozioni più profonde, per far affiorare le parole che non riusciamo a far uscire.
Serena Pozzi