Je voudrais donner vie à mes rêves d’Orient
Hervé Koubi
I rintocchi di una campana lontana e invisibile annunciano il calare della notte. Un buio denso riempie la sala, rischiarato soltanto da un cerchio di luce, unico elemento a disegnare lo spazio sul palcoscenico. Al centro del disco luminoso i corpi dei dodici danzatori giacciono a terra gli uni accanto agli altri e il bianco dei loro ampi pantaloni di cotone richiama quello delle lenzuola di un grande letto. La prima immagine di Ce que le jour doit à la nuit è infatti un risveglio: un risveglio che però avviene di notte, nell’atmosfera sospesa di un sogno. Un danzatore si alza in piedi e propone un nuovo movimento. Subito qualcuno lo imita, gioca con lui, lo sfida, lo rincorre: presto l’intero gruppo viene trascinato in un movimento energico e vorticoso. La danza si manifesta così come uno scambio, come mezzo di conoscenza e scoperta di sé e dell’altro nella comunità.
Ma a quale spazio e tempo appartiene questa comunità? Dapprima i tamburi e i suoni delle composizioni di Hamza El Din sembrano riportarci a uno scenario nordafricano, ma presto questa sensazione si confonde e si amalgama in un più fluido sincretismo culturale che attraverso brani di musica Sufi giunge infine al coro di apertura della Johannespassion di Bach, che evoca una sacralità più vicina a un immaginario occidentale ed europeo.
L’unica certezza è che di fronte a noi si stia compiendo un rito, sociale e sacro, che scava nelle tradizioni delle culture che si affacciano sul Mediterraneo. A suggerire l’idea della ritualità è anche la ripetitività dei movimenti dei danzatori, due in particolare: i salti, che esprimono una tensione verso il cielo, e l’headspin, la giravolta compiuta in equilibrio sulla testa tipica della breakdance. Durante il salto, nel momento del volo, i veli bianchi legati ai pantaloni dei danzatori si aprono come fossero ali o petali di un fiore, mentre il movimento rotatorio dell’headspin richiama visivamente un’altra tradizione sacra orientale: la danza dei dervisci rotanti, i mistici islamici.
A un certo punto però lo spettatore è chiamato a prendere parte al rito a cui fino ad ora ha solo assistito. I performer camminano verso il proscenio, e danzano per la prima volta con lo sguardo completamente rivolto al pubblico, che si sente accolto in questa neonata comunità. E anche la voce sulla quale lentamente si spegne il sogno è rivolta allo spettatore: è la voce di un danzatore che è avanzato tanto da sottrarsi alla luce dei riflettori e che, simile a un’ombra, ci rivolge parole in arabo che non comprendiamo, ma che sentiamo appartenerci. La sua voce ci segue, ripetitiva e dolce, fino al calare del buio in sala e oltre. La notte è terminata, ma attraversandola abbiamo ricordato qualcosa di originario e profondo, qualcosa che ci guiderà anche durante il giorno.
Allegra d’Imporzano
CE QUE LE JOUR DOIT À LA NUIT
assistenti alla coreografia Guillaume Gabriel – Fayçal Hamlat
danzatori Mijiem Houssni, Zahid El Houssaini, Guennoun Oualid, Meherhera Nadjib, Maamar Bendehiba, Oubbajaddi, Ghezal Zakaria, Gruev Vladimir, D’amico Beren, Buffoni Giacomo, Benr Guibi Badr, Elhilali Mohammed
musiche originali Maxime Bodson
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview