«Qual è l’amore che dura?», si legge sulle magliette, i manifesti e i cartelli che costellano sale e spazi di Centrale Fies – l’ex centrale idroelettrica che nei pressi di Dro svetta tra i monti e il fiume Sarca – quasi un filo rosso che ha accompagnato e determinato le scelte degli spettacoli, degli artisti e delle artiste che hanno animato quei luoghi dal 21 al 23 settembre. Enduring Love più che un titolo è uno stato, una presa di posizione, una rivoluzione, un sentimento quotidiano e rinnovato negli anni, un’attenzione verso un processo, un lavoro o una persona. La scelta, politica e poetica, dunque, è stata quella di richiamare artisti che negli anni hanno stretto un legame con il luogo e con i curatori che, spesso per primi, hanno dato fiducia a idee e proposte ancora in erba. Barbara Boninsegna e Dino Sommadossi (fondatori e curatori di Centrale Fies), Simone Frangi (Live Works), Filippo Andreatta (fondatore di OHT), Mackda Magada Ghebremariam Tesfaù (ricercatrice e attivista), Justin Randolph Thompson (artista e fondatore di Black History Month Florence) e Denis Isaia (curatore del museo MART) formano la squadra che in questi anni ha dato vita a diversi progetti, tra cui Fies Factory, Live Works, Feminist Futures. Durante la tre giorni si sono così ritrovati a Centrale Anagoor, Sotterraneo e CollettivO CineticO, compagnie che hanno fatto parte della Fies Factory, l’incubatore per artisti e artiste under 30 che per tre anni ha dato loro sostegno e mentoring. Giulia Crispiani e Sergi Casero Nieto invece sono all’interno di Live Works, curato da Barbara Boninsegna e Simone Frangi, un progetto che offre residenza e supporto curatoriale, tecnico ed economico ai performer. Oltre ai nomi già citati, si sono aggiunti a Enduring Love, OHT, Marco D’Agostin, Mali Weil, Alessandro Sciarroni ed Emilia Verginelli.
«Rompiamo l’egemonia della storia con tutta una serie di storie d’amore» dice Crispiani nel suo spettacolo INEVITABILE, e questa frase risuona in ogni angolo di Centrale, anticipando diversi punti in comune tra gli spettacoli: da un lato l’interesse verso la Storia, dall’altro verso le storie. Sarà che radunare artisti, i cui percorsi si sono sviluppati e incrociati proprio a Fies, ha originato cortocircuiti, stretto comunità e riverberato dentro e fuori la scena. Risaltano, tra tante, due traiettorie comuni: la narrazione della Storia che attraverso il fatto personale e privato diventa pubblica e collettiva, e il bisogno del racconto che, in quest’epoca frammentata, cerca di tracciare delle linee-guida tra i secoli e arrivare all’oggi.
«Nel racconto tutto diventa sensato» affermano i Sotterraneo ne L’Angelo della Storia, dove le parole sono fiumi in piena e travolgono lo spettatore. La costruzione dello spettacolo sembra quella di un orologio in cui ogni ingranaggio – che si può identificare con una storia – incastrandosi con un altro porta inevitabilmente alla conseguenza successiva, muovendosi, come un compasso, sia avanti sia indietro nel tempo. Ma siamo certi che tutto ciò che sappiamo è realmente accaduto? Ogni cosa può essere travisata, fraintesa, mistificata, e tuttavia non possiamo fare altro che credere ai racconti e continuare a crearli.
Possibile, quindi, che quel “This could be the spell”, scritto a lettere cubitali sullo striscione appeso alla facciata di Centrale Fies, si riferisca a questo bisogno di ricordare e raccontare? Che quello spell, come un incantesimo lanciato, sia in qualche modo correlato al recupero di un tempo passato? «Ricordare tutto da qui fino all’inizio» è il desiderio di Marta Ciappina ne Gli Anni di D’Agostin: qui, un tempo scandito da una ‘conta di limoni’, una filastrocca dell’infanzia, segna i momenti della vita della performer. Così come Annie Ernaux fa nel suo omonimo romanzo, in cui si intersecano nei ricordi personali i fatti della Storia, la politica, le lotte, la creazione di D’Agostin realizza qualcosa di simile, nella disarmante verità dell’essenziale: a susseguirsi sono pochi oggetti, immagini abbozzate che, come un carosello, ci scorrono davanti agli occhi, gesti essenziali su estratti di canzoni che hanno fatto la storia della musica pop degli ultimi vent’anni, poche parole – solo quelle giuste – perché il non detto è molto più potente di mille spiegazioni. Si trattiene il respiro e ci si commuove quando la performer chiede: mi dedicate una canzone? E subito dalla platea la risposta: Amico fragile di De André.
In ECLOGA XI un omaggio presuntuoso alla grande anima di Andrea Zanzotto di Anagoor il ritornello è una filastrocca popolare: «Questa xe a storia de Sior Intento, che dura tanto tempo, che mai no a se destriga, vutu che te a conta o vutu che te a diga?» Gli Anagoor, basandosi sulle parole e le poesie di Andrea Zanzotto, rievocano non solo la biografia del poeta attraverso filastrocche venete, arte, racconti, ma ripercorrono anche il bombardamento di Hiroshima, la Prima Guerra Mondiale e la battaglia sul Montello. Il tutto incastonato in una scenografia pensata da Simone Derai, ispirata a Wood #12 A Z di Francesco De Grandi, che richiama il «fogliame oscuro», ossia l’ambientazione e la vegetazione descritta nel componimento (Perchè) (Cresca) di Zanzotto. Leda Kreider, in questo moderno Eden, riflette sul senso di una poesia «ostinata a mediare l’immediabile» in un’epoca, la nostra, senza speranza.
Lo sguardo è ancora rivolto al passato con El Pacto del Olvido di Sergi Casero Nieto che, solo in scena, narra, attraverso luci e immagini, la guerra civile e il regime di Franco in Spagna. “Il patto dell’oblio”, sancito dalla legge di Amnistia indetta nel 1977, imponeva il silenzio sui fatti storici e i crimini di guerra riguardanti il periodo del franchismo in Spagna. Il punto di vista messo in luce da Casero Nieto, attraverso foto e documenti proiettati con una lavagna luminosa sulla parete di fondo, è quello di sua nonna e sua mamma. Il performer dialoga con le due donne, simbolicamente presenti in scena grazie all’utilizzo di una sedia e di una luce che la illumina a ogni risposta. Il palco è cosparso di cavi, collegati a una consolle che accende e spegne riflettori, fari, luci e neon, segnalando e indicando un frammento o un personaggio di quella storia dimenticata. Ogni lampadina si accende sui morti non sepolti, i ricordi sommersi, le costrizioni della guerra, gli innocenti che vi hanno partecipato, la paura, le vittime, per poter fare – letteralmente – luce su un passato recente ma ancora pulsante e doloroso. Ma per quanto mantenere un “patto del silenzio” all’epoca sia stato efficace per non incorrere in vendette, oggi risulta necessario ricordare ciò che è stato per non ripetere, o almeno per riconoscere, la Storia.
Alessandro Sciarroni porta a Centrale Save the last dance for me, un articolato progetto formato da una performance e un workshop sulla polka chinata. Il ballo, nato agli inizi del Novecento e oggi in via d’estinzione, è una versione più atletica della polka tradizionale, i cui passi sono eseguiti da una coppia di uomini. Sulla musica di Aurora Bauzà e Pere Jou, in un crescendo lento e costante, i danzatori vorticano per la sala, come un carillon, dove giochi di sguardi e di sorrisi creano una storia non detta tra i due performer.
Non più a ritmo di polka ma con la musica di John Cage, suonata dal vivo, si presenta Dialogo terzo: IN A LANDSCAPE, firmato da Sciarroni insieme a CollettivO CineticO. La ripetizione dei gesti ipnotizza lo spettatore, gli interpreti, con hula-hoop blu, creano e spezzano simmetrie sul palco. Infine, How to destroy your dance, del CollettivO, è un ironico e perfetto gioco tra serio e faceto. La performance ruota intorno alla domanda: quanto dura un minuto? E quante azioni si possono compiere in un minuto? Sul palco si sfidano eroi dai poteri futili: nel tempo di sessanta secondi devono eseguire il più velocemente possibile una stessa sequenza di gesti, così che il più lento sarà costretto a ripetere in loop quella identica partitura. È una scritta, proiettata sul fondale, a sancire la fine della competizione: end of the performance, leggiamo dalla platea, e insieme a essa termina anche la tre giorni di festa.
Vedere prima del tempo richiede intelligenza, coraggio e saper sempre aprire lo sguardo al nuovo, al diverso, a ciò che ancora, a volte, non si comprende. Barbara Boninsegna e Dino Sommadossi hanno saputo, anzitempo, riconoscere le potenzialità in artiste e artisti liminali, che ibridano e sperimentano con i linguaggi, riconoscendone la rilevanza del percorso ben oltre il singolo risultato. Nella fucina di Centrale Enduring Love è un inizio e allo stesso tempo l’esito di un processo inarrestabile e in costante cambiamento. I curatori attraverso la ricerca e l’interrogazione sul domani scrivono, giorno per giorno, nuove linee guida modificando spazi, rinominando ambienti e creando progetti. Infine alla domanda «Qual è l’amore che dura?», ognuno reagisce secondo la propria sensibilità: a Centrale Fies, tenacemente, continuano a rispondere «Il nostro».
Francesca Rigato
in copertina: CollettivO Cinetico, How to destroy your dance, foto di Alessandro Sala
ENDURING LOVE
Centrale Fies, Dro (TN)
dal 21 al 23 settembre 2023
con OHT, Mali Weil, Emilia Verginelli, Anagoor, Sotterraneo, Sergi Casero Nieto, Giulia Crispiani, Alessandro Sciarroni, CollettivO CineticO, Marco D’Agostin