Gli allievi erano arrivati al workshop con alcuni materiali, estratti, stralci, lavori, piece, spettacoli interi, performance, idee. Jan Lauwers non le ha cancellate, le ha valorizzate. Non le ha cambiate, le ha migliorate, armonizzate. Non le ha travisate, tradite, ma ottimizzate.

Quattro giorni per arrivare ad una creazione collettiva di cinquanta minuti, dove sono emerse le varie personalità dei danzatori, la tecnica del regista, la passionalità del gruppo, un cumulo di persone affiatate, vicine, coinvolte, complici. Il regista belga è riuscito a trovare l’alchimia giusta, coniugare le diverse esigenze in una “filata finale” che chiamare “saggio” sarebbe riduttivo e chiamare spettacolo sarebbe eufemistico. Una buona prova d’insieme. Lauwers è riuscito a legare le varie parti singole, a cucire i pezzi in un insieme drammaturgico, in un fil rouge dove le potenzialità di molti protagonisti sono emerse.

Ed ecco allora Lydia, nel suo cardigan indossato al contrario, quasi come fosse un tubino aderente nero ma appena aperto sul fondo schiena come la vecchia pubblicità del Martini, entrare ancheggiando e cantando una versione riveduta di The man I love, nella sua splendida intonazione soffice e sontuosa, intensa e sentita, sensualissima, accavallando le gambe maliziosa come Sharon Stone in “Basic Instinct”. Poi eccola miscelarsi con Carlota in mutande ed ali da angelo che quasi muore soffocata, tossente, aggozzata inghiottendo un acino d’uva in una mossa che a prima vista doveva sembrare intrigante. È un magma in continuo movimento, si amplia e si dipana, si forma e si sfalda per poi ricomporsi in un battito di piedi tambureggiante e solido. Dietro, nel video alle loro spalle, appaiono intanto i sette peccati capitali a rotazione, quasi lampeggianti, sicuramente subliminali. Under my skin.

Qui, è proprio qui, che parte il leit motiv di tutta la piece, la colonna sonora ridondante e ricorrente, il refrain che ti entra nel cervello senza lasciarti in pace. I Queen impazzano, Freddy Mercury gorgheggia che sembra vederselo davanti agli occhi con l’asta del microfono in mano ed i suoi classici e caratteristici baffoni. Intanto sul palco il gruppo balla come gli zombie alla Michael Jackson in una danza rituale totemica attorno ad un fulcro intercambiabile. La potenza del ballo collettivo, allegro e sferzante, lascia presto il tempo e lo spazio alla commozione nella fissità e nell’immobilismo di Nicholas che resta sul posto ragionando, con la sua voce fuori campo, sulla “necessità” e sull’“identità”, lui che ha conosciuto il padre dopo i trent’anni, addirittura senza parlare la stessa lingua: uomini con lo stesso sangue ma perfetti sconosciuti. Pieni e vuoti.

La pièce l’ho vista nascere, crescere, evolversi, svilupparsi, ne ri-conosco i tratti come un parente alla lontana, la sento, la vedo, è anche parte di me, del mio tempo sulle sediole laterali del teatro, per non disturbare. È amore: non è stato amore a prima vista, ma adesso la creatura mi piace, è festante.

Francesca racconta la sua storia di un passaggio rotolando verso Sud, correndo da Napoli alla Calabria, nel suo inglese stentato e tutto italiano e povero, volutamente, di vocabolario, mentre Catherine amplia i suoi concetti, li travisa esagerandoli, le corregge la pronuncia e Stefan interrompe continuamente al microfono presentando gli altri intervenuti sulla scena. L’aria è elettrica di sorprese, di attese, di incroci, di incontri, di apparizioni, di epifanie. Benjamin balla la sua danza nuotante prima che tutti comincino, sempre sulle note dei Queen, ormai tormentone sibilante, a suonare i loro strumenti musicali virtuali. Una calca complessa, una somma di corpi che va a distruggersi, liquefarsi, infrangersi, cadere in un ammasso informe di carne. Si alzano redivivi prima della tosse collettiva che li coglie. Sembra di vedere gli impiegati delle Torri Gemelle nei loro uffici pieni di nebbia e fumo sputare i loro ventuno grammi nell’ultimo undici settembre che hanno visto. Catherine, tra le più brave assieme a Lydia, espone il suo monologo arrabbiato dando degli ipocriti al pubblico. Alex Rigola, pure citato nel finale spiritoso, se la ride. E Lauwers dice, indicando i “suoi” ragazzi: «Beautiful people!». Il cielo è sempre più blu.

Tommaso Chimenti  www.scanner.it

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