“Siam tre piccoli porcellin, siamo tre fratellin…”.
In Italia ce lo ricordiamo così. Era il motivetto che faceva da colonna sonora a uno dei più grandi successi Walt Disney, I tre porcellini, datato 1933. A onor di cronaca, la versione originale dello stornello recitava: “Who’s afraid of the big bad wolf?” dove “il grande lupo cattivo” di cui aver paura era, secondo alcuni, la crisi economica venuta a distruggere, insieme alle case dei simpatici suini perdigiorno, buona parte dell’America immersa nella grande depressione.
Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee, drammaturgo statunitense che nel 1962 lo presentò sulle scene di Broadway, prende il suo titolo proprio da quell’animazione disneyana, innestandovi, con un calembour piuttosto cerebrale, il nome della famosa scrittrice inglese del secolo scorso. Uno slittamento semantico che, si può azzardare, prende le mosse da un malessere collettivo e dichiaratamente pubblico (l’inquietudine economica di un intero paese) per arrivare a una questione estremamente intima e privata: il racconto di una crisi di (doppia) coppia. La trama prevede infatti che due maturi coniugi si trovino, a tarda notte, ad ospitare per il bicchiere della staffa due sposi novelli appena conosciuti ad una festa. Ne nascerà un confronto dall’alto tasso etilico, in cui i quattro metteranno a nudo divergenze, squallori e insoddisfazioni della propria vita.
Basta questo breve excursus sul titolo e sulla vicenda a far intuire quale patata bollente si sia trovato tra le mani Arturo Cirillo quando ha deciso di confrontarsi con quest’opera. Non sarebbe la prima volta: durante l’ultima stagione l’attore-regista napoletano era già riuscito a domare con esiti felicissimi Patroni Griffi (Scende giù per Toledo) e Tennessee Williams (Lo zoo di vetro), due autori non semplici da portare in scena senza impantanarsi in retoriche e sentimentalismi d’accatto. Lambiccato e piuttosto datato, il testo di Albee si rivela da subito lo scoglio più grande: non perché privo di spunti interessanti quanto per un’oratoria artificiale (così peculiare da essere trattata nel manuale di Pragmatica della comunicazione umana di Watzlawick, Beavin e Jackson) e per una staticità della situazione drammaturgica che lo rende assai simile a un kammerspiel (un po’ Strindberg, un po’ Carnage ante litteram).
Consapevole di tutto ciò, Cirillo non sembra scomporsi e opera, secondo il suo stile, attuando una valorizzazione calibrata, un restauro riqualificante che non stravolge ma diventa un impercettibile sdrucciolare verso un inedito stato di grazia. Questa nuova messa a fuoco passa da un casting meticoloso (il teatro di Cirillo è in primo luogo teatro d’attore), da mirate scelte di regia (la scena che deflagra è citazione puntuale alla casa dei porcellini squassata dal soffiare del lupo) e da un’accurata revisione degli argomenti trattati. Ecco allora che l’ubriacatura collettiva su cui poggiava la satira di Albee al sistema puritano-americano (che solo nell’alcol riusciva a trovare rimedio alla propria ipocrisia-perbenista) rimane solo come pretesto, al più come arredo narrativo, da relegare nella scenografica bottigliera sullo sfondo. La veritas in vino è ormai luogo comune che non fa più scandalo, suggerisce Cirillo il cui personaggio sembra reggere l’alcol assai bene: il dramma sta altrove. Risiede nella questione – altrettanto cara al calvinismo protestante ma non solo – di una mancata realizzazione lavorativa, di una vita professionale castrata, resa sterile (ed ecco il figlio immaginario) dalle raccomandazioni, dai favori ricevuti che non fanno altro che umiliare l’uomo, fiaccarlo nel fisico come nella mente, fino a renderlo inetto.
“Cosa vuole che le dica? Qualunque cosa risponderò, a lei non andrà bene e io avrò sbagliato!” Come il personaggio di Edoardo Ribatto – che con lo stesso Cirillo, Milvia Marigliano e Valentina Picello completa il validissimo parterre attorale – si sottrae all’imboscata dialettica postagli dal padrone di casa, così il regista partenopeo aggira le insidie della pièce di Albee piegandola al suo registro. Ciò che non riesce a sventare del tutto è un vago effetto cover, una certa propensione al tradizionalismo (e non è un caso se Senza luce dei Dik Dik mutuata da A wither Shade of pale dei Procul Harum fa la sua comparsa nella colonna sonora dello spettacolo). Ma, quand’anche non si trattasse di una scelta meditata, sarebbe, in ogni caso, una riedizione di gran pregio.
Corrado Rovida
Chi ha paura di Virginia Woolf?
di Edward Albee
regia di Arturo Cirillo
traduzione di Ettore Capriolo
con Milvia Marigliano, Arturo Cirillo, Valentina Picello, Davide Enea Casarin
scene di Dario Gessati
costumi di Gianluca Falaschi
luci di Mario Loprevite