Il dialogo tra essere umano e l’ambiente circostante è stato uno dei fil rouge della tua masterclass. È un tema presente anche nei due lavori (Lute e The Wilderness) che porti al festival? E in che forma?
Nei miei lavori mi interessa esplorare possibili comunicazioni con “l’altro”: uno straniero, un alieno, il mondo naturale, le piante, i minerali. Penso che la danza offra una possibilità di relazione con queste entità. In scena questo legame misterioso non è esplicitamente descritto, ma soltanto suggerito, in modo che lo spettatore abbia lo spazio per mettere nella propria mente il dialogo che immagina.

A lezione hai parlato di “senso ecologico” della danza: da dove nasce questa prospettiva che mette al centro la natura? Per me “ecologia” significa, ancora una volta, una relazione col mondo che ci circonda. Non parliamo solo di fare correttamente la raccolta differenziata, ma di come ci rapportiamo con il mondo cercando di comprenderlo. In questo momento, ad esempio, mi sto occupando di intelligenza animale: gli animali hanno linguaggi e sensibilità complessi che dovremmo imparare a conoscere meglio. La mia attenzione nasce dalla passione e dall’amore verso le “forme animali” che mi hanno sempre accompagnato. È un’attitudine non necessariamente legata al mio mestiere di coreografo. I molti viaggi che ho fatto mi hanno aiutato a coltivare questa sensibilità. L’emergenza ecologica è diventata ultimamente un tema molto sentito, un’urgenza e in effetti è nostro dovere prendere decisioni concrete che ci impegnino direttamente.

Che ruolo hanno le fiabe e la mitologia nella tua danza?
Ho sempre avuto una visione fiabesca delle cose che accadono in scena. Una prospettiva sicuramente legata alla mia provenienza: vengo da un piccolo paesino della campagna laziale, dove tradizione e narrazioni popolari sono ancora molto presenti. Quello che voglio restituire al pubblico con i miei spettacoli è la possibilità di immaginare: le scene rarefatte creano dei vuoti che si amplificano nella mente dello spettatore. L’idea è mettere in scena un linguaggio che, come certe fiabe o certi miti, magari non comprendiamo fino in fondo, ma che ci affascina e che ci porta a usare l’immaginazione.

Come si intersecano nel tuo processo creativo le improvvisazioni dei tuoi danzatori con le tue esigenze personali e di coreografo?
L’intreccio tra la mia sensibilità e quella dei miei danzatori è fondamentale. In sala prove propongo delle suggestioni e dei task, come ad esempio visualizzare un luogo con il quale devono relazionarsi: a questo punto sono i danzatori a riportarmi le loro immagini, le loro fascinazioni. Insieme cerchiamo un punto d’incontro tra i vari “disegni” che abbiamo creato, ricomponendoli in una sequenza. Quindi comincio a riempire i vuoti presenti nella sequenza, creando una sorta di drammaturgia del movimento.

Qual è il pubblico a cui pensi si rivolgano maggiormente i tuoi lavori?
La nostra danza è adatta a qualsiasi tipo di pubblico e a qualsiasi fascia d’età. Non vuole essere una danza elitaria o che presuppone delle conoscenze. È una danza immediata, facile da ricevere, anche per le atmosfere che suggerisce. Le scene che compongo non hanno bisogno di essere comprese in senso intellettuale, ma propongono delle suggestioni che il pubblico rielabora in modo soggettivo.

Alice Rapalli

(In copertina, ph: Ilaria Scarpa)


Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview