Sulla home della tua pagina web campeggia la frase “noi vogliamo dimostrare che forse non è l’uomo ad essere l’oggetto prediletto della danza, ma qualcosa d’irraggiungibile, stellare”. Ce la puoi spiegare?

Io provengo da una forma di danza tra le più astratte: ho sempre pensato che l’astrazione abbia a che fare con gli astri, con le stelle – cioè che sia un porsi sempre in maniera trascendente, qualcosa che sempre anela a ciò che è al di là. La danza a cui lavoro – posto che non è che una delle possibili declinazioni della danza, forse la più radicale – non indugia sulle cose dell’uomo o del mondo, ma le attraversa. Per andare dove? Sempre più in là, sospinta da un desiderio senza oggetto. I movimenti dei danzatori non si fermano mai in una forma particolare ma ‘vi trascorrono’. Durante le sequenze proposte alle ragazze ho parlato di ‘pellicano’, ‘foresta’, ‘fuoco’: sono immagini che recupero per definire un movimento, non per dimorare in esso. Ogni movimento nell’attimo stesso in cui è apparso è anche già scomparso.

I rimandi al mondo naturale nei tuoi lavori sono molti, soprattutto in Ossidiana e The rain sequence, che tra poco vedremo a MilanOltre. Se la tua danza non intende rappresentare o descrivere alcunché, a cosa si deve questa scelta?

Da bambino facevo finta di fare il pappagallo o la scimmia, non so perché lo facessi. Adesso vale lo stesso; non so indicare una ragione precisa. Avverto il fascino del dialogo esistente tra le creature e il mondo e i fenomeni atmosferici: osservo e immagino il configurarsi di quel dialogo, spesso me ne servo come punto di partenza, ma non lo rappresento, con la danza semmai lo traduco in un altro, ulteriore, linguaggio. Quest’altro linguaggio è ciò che davvero mi interessa. Pensiamo alle danze africane: potremmo scorgervi movimenti che ricordano quelli di un elefante, magari intravedere una proboscide. Ma quello che stiamo guardando è un elefante? È un errore guardare la danza domandandosi sempre che cos’è.

Che cosa intendi quando, a proposito di The Rain Sequence, affermi: “il corpo e lo spazio sanno già sempre l’uno dell’altro”?

È l’idea che sta alla base di questo lavoro. Una premonizione. Proprio il dialogo sottile e segreto tra le creature, il cielo e la terra di cui parlavo poco fa; di tale contatto noi siamo consapevoli perché qualche volta la sua segretezza viene tradita, come quando ci è dato osservare migrazioni di specie selvatiche. Gli animali hanno sempre una consapevolezza acuta di ciò che sta per accadere nel cielo o sulla terra, come nel caso dei terremoti. In questo senso sanno l’uno dell’altro. Questo mi affascina moltissimo.

Ci sono nelle tue coreografie elementi-guida, attraverso cui intendi suggerire al pubblico, se non un significato preciso, quanto meno un modo di fruizione?

Assolutamente no. Non sono d’accordo che si richieda a noi, coreografi o danzatori, di spiegare qualcosa. Il pubblico è già formato; ciascuno possiede gli strumenti per capire ciò che sta vedendo. Naturalmente non mi riferisco al tipo di comprensione che si può avere di un testo letterario o di una drammaturgia, ma alla possibilità di stabilire un dialogo con chi danza. Si può capire in molti modi e questi modi sono diversi per ognuno. La danza è innanzitutto una manifestazione; è come una fontana. Cosa chiedi a una fontana mentre la guardi?

Per concludere, una parola particolarmente rappresentativa del tuo lavoro?

‘VAR’ è la parola che l’astrofisico Edwin Hubble ha annotato sulla fotografia di una costellazione che riuscì a immortalare. Significa stella variabile, non fissa. Come definizione mi piace.

Federica Monterisi

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MilanOltreView