Progetto a cura di Fiorenza Menni e Elena Di Gioia
Visto al PimOff di Milano_12 e 13 Maggio 2013

L’attore è un cittadino che opera una scelta di vita. Da questa consapevolezza ha preso le mosse il progetto Civile, curato da Fiorenza Menni per Teatro Clandestino: dialoghi, riflessioni, domande sul momento di svolta, sulle sue profonde implicazioni sociali e identitarie.

Grazie alla collaborazione di Elena Di Gioia, il progetto ha assunto poi le caratteristiche di uno spettacolo e hanno così preso forma una serie di monologhi con diverse connotazioni: c’è chi racconta la sua storia appeso a una fune, chi legge fogli sparsi sul pavimento, chi parla in terza persona (di sé?). La prospettiva del pubblico è ribaltata: non uno spettacolo frontale bensì una serie di sedie che tagliano in diagonale la stanza, sulle quali il pubblico si muove alla ricerca degli attori, spesso presenti solo come voci fuori campo o oscurati dal fumo che inonda lo spazio fin dall’entrata in sala.
Civile
– inserito in una stagione intitolata significativamente “Che cosa me ne faccio del teatro?” – mira a un coinvolgimento non mediato del cittadino alla performance: dopo la prima parte dello spettacolo, il pubblico è invitato a voltarsi per osservare i partecipanti al laboratorio tenuto da Fiorenza Menni in questi mesi al PimOff. Seduti intorno a un tavolo, immagine che ricorda quella della riunione aziendale, gli attori tristi suonano strumenti improvvisati (triangolo, sacchetto di plastica, tamburo) finché l’alzarsi in piedi di uno di loro dà il via al cortocircuito: a turno pongono domande, rispondono, lottano contro l’immobilità della parete, gridano e ritornano al posto fino a quando il giro si esaurisce.

Nell’ascoltare il ciclo dialogico sulle motivazioni più intime che hanno avvicinato comuni cittadini alla scena, lo spettatore è chiamato – come davanti a uno specchio –  a riflettere su di sé, sulle proprie scelte di vita, sulle ragioni profonde del legame con il teatro: nel laboratorio di Teatro Clandestino, la comunità viene rappresentata senza limiti di età, provenienza, sesso.
Il carattere fortemente autobiografico dei brani e la loro scarsa letterarietà causa, soprattutto nella prima parte, qualche squilibrio e resta l’impressione di trovarsi di fronte a un processo piuttosto che a uno spettacolo compiuto. Eppure, proprio nell’apparente autoreferenzialità, risiede la chiave di Civile: il teatro mette in scena se stesso – quale questione più attuale e meno considerata dai più? – per salvarsi e riacquistare una dimensione comunitaria.

Il progetto trova quindi il suo coronamento nella proposta, già sperimentata a Bologna, di una modalità di esecuzione “virale”: i brani, recitati singolarmente dagli attori, si offrono alle platee più disparate, non solo nei foyer di importanti teatri ma anche in sale d’aspetto di ospedali o in aule universitarie. Un teatro che si insinua nella quotidianità, cercando i suoi spettatori, interrogandoli sul loro ruolo di cittadini.

Camilla Lietti