di Vincenzo Pirrotta
Con Anna Bonaiuto
visto al Teatro Carignano di Torino_6 marzo 2016
“Un mondo di sporcizia e di rovine”. “Una dimensione post-atomica”. Così inizia la drammaturgia pubblicata l’anno scorso dall’attore, autore e regista siciliano Vincenzo Pirrotta (Clitennestra Millennium. La caduta degli dei, Glifo Edizioni 2015, prefazione di Stefania Rimini ora anche online). La versione scenica, prodotta dal Teatro Biondo di Palermo, approda ora a Torino con la regia dello stesso autore e Anna Bonaiuto come protagonista. Clitennestra, moglie omicida di Agamennone, emerge dal suo sonno millenario per giustificare il suo gesto. E ci conquista sin dal primo monologo. Si staglia nel lungo abito rosso sul fondale di tela strappata – un omaggio all’arte di Burri, o di Kounellis? – che ha un ruolo funzionale nello scenario apocalittico del dramma. Il sipario infatti evoca simbolicamente le porte inviolabili, sigillate da un codice genetico, che in un futuro distopico separano tre mondi o caste. Sul proscenio, dopo il prologo, si fa avanti strisciando il coro di donne micenee, vestite di stracci e materiali riciclati; il loro “Blues della città perduta”, rigorosamente in siciliano, dipinge un’umanità degradata e allo sbando, e prospetta a Clitennestra cosa l’attende al di là della scena: uno stuolo di cagne (le Erinni) che hanno distrutto i libri e i templi e custodiscono l’ingresso a un paradiso artificiale. Qui pochi privilegiati vivono nel lusso, compiono sacrifici umani e adorano falsi dei, i quali non sono altro che Oreste e Elettra, figli e assassini di Clitennestra stessa.
La perdita di se stessi e l’idolatria, oltre alla volontà di “riabilitare” Clitennestra, sono punto di partenza e di arrivo per Pirrotta: la mancanza di spiritualità può produrre ogni eccesso e portare alla barbarie, se “gli uomini si fanno dèi”. Non a caso il dramma ha per sottotitolo “La caduta degli dei”, in omaggio all’omonimo film di Luchino Visconti (1969), ma è soprattutto debitore a un altro genere: la fantascienza. Noi appassionati di distopie futuribili, popolate di subumani e idoli, alieni e robot, riconosciamo echi e citazioni dei topoi che accomunano “classici” quali La macchina del tempo di H. G. Wells (1895), Metropolis di Fritz Lang (1927), Zardoz di John Boorman (1974), o la più recente filmografia del sudafricano Neill Blomkamp, dove le memorie dell’apartheid si trasfigurano nella baraccopoli aliena (District 9, del 2009), nei due mondi di Elysium (2013), nella violenta Johannesburg di Humandroid / Chappie (2015). In questa Clitennestra simili modelli si contendono il podio con gli archetipi antichi, ossia l’Orestea eschilea e i suoi epigoni. Tra questi spicca Pasolini – autore caro a Pirrotta – con l’Orestiade rappresentata a Siracusa (1960), ma soprattutto con il dramma Pilade (1966), che ne è ideale continuazione, e che, come la trilogia del 1960, è tuttora ripreso e riproposto in scena (si veda ad esempio Maddalena Giovannelli e il volume di Archiviozeta).
E il regista palermitano sa bene che parte ha la Sicilia in tutto questo. Qui viene a morire Eschilo, dopo aver preso congedo da Atene con l’Orestea; qui scocca l’amore di Pasolini per la Grecia antica, che ispirò poi drammi e film, tra cui Appunti per un’Orestiade Africana (1969). Un altro drammaturgo siciliano, Emilio Isgrò, nei primi anni Ottanta riscrive la trilogia eschilea nella sua lingua d’arte, la ambienta e la rappresenta sulle rovine di Gibellina distrutta dal terremoto (E. Isgrò, L’Orestea di Gibellina, Firenze, 2011). Quella trilogia inaugura un festival ancora oggi attivo, le “Orestiadi di Gibellina”, e che nel 2004 produce la bella versione siciliana di Eumenidi, scritta, diretta e interpretata proprio da Pirrotta, a partire da Pasolini (V. Pirrotta, Eumenidi, Acireale-Roma, 2010) e tuttora in tournée (si veda la recensione di Fornaro e Viccei, e M. Fusillo, Lo smontaggio del mito. Funzioni espressive dell’oralità in scena, in L’oralità sulla scena, a cura di M. Arpaia, A. Albanese e C. Russo, Napoli 2015).
Quelle Eumenidi, e le “Orestee siciliane” sopra citate, sono presupposti del percorso più che decennale di Pirrotta, che comprende anche classici antichi e moderni come Il Ciclope di Euripide tradotto in siciliano da Pirandello, le Supplici a Portopalo (da Eschilo), il Filottete da Sofocle, Le donne a parlamento di Aristofane (a Siracusa nel 2013, protagonista Anna Bonaiuto). Questa Clitennestra è un nuovo tassello nel suo personale puzzle di riscrittura e rivisitazione dei modelli: anche qui l’originale impasto di italiano e siciliano attinge liberamente alla realtà, al teatro di strada e del cunto, essenziale per la formazione di Pirrotta (allievo dell’Accademia INDA di Siracusa e di Mimmo Cuticchio: si veda il film di John Turturro Prove per una tragedia siciliana). Ma rispetto ai precedenti spettacoli qui Pirrotta non amalgama gli elementi della sua personale “ricetta”, ma anzi estremizza i contrasti, cerca la disomogeneità in ogni aspetto, dal linguaggio ai costumi alle musiche: melodie popolari e rock-blues, ninnananne e tammurriata napoletana, musica liturgica e techno… Spicca tra tutti il canto dolente delle Erinni, mutuato dalle già citate Eumenidi (2004): è lo stasimo che in Eschilo precede il processo, e Pirrotta sapientemente trasforma in finale, rendendolo un canto funebre sulla morte della Giustizia. Così l’autocitazione diventa pietra di paragone col modello, e suo superamento. Qui, infatti, le Erinni sono parte attiva nella “rivincita” di Clitennestra: lei le riscatta da un destino infame, ridando loro la dignità; poi, col loro aiuto, nell’ultima sparatoria ‘alla Tarantino’ rende finalmente giustizia alle compagne e a se stessa.
Martina Treu