«Gli astronauti ballavano, erano trasparenti, le voci modificate dallo spazio, si specchiavano l’un l’altro nelle visiere lucide, non erano mai stati lì eppure muovevano i loro piedoni ingigantiti sui granelli, sulle bolle e le piaghe della luna che in quel momento cessò di essere una dea». Quando Cees Noteboom annota queste frasi è il 1980: sta attraversando la Spagna del nord animato dalla volontà di raggiungere Santiago, eppure ben presto perde qualsiasi traiettoria, sbanda, incespica in conventi ancestrali o lungo le «strade bianche» segnate sulla cartina Michelin. È in questa divagazione che il grande romanziere olandese si ferma a Soria, nello stesso albergo nel quale aveva alloggiato l’anno precedente, durante le celebrazioni per il decennale dell’allunaggio: ma anche allora, in quel luglio del 1969, Nooteboom si trovava in Spagna, «in una bettola dove i pescatori giocavano a carte», indifferenti a quanto stava accadendo sugli schermi televisivi e poco più in là, a trecentottantamila chilometri di distanza. La peregrinazione territoriale si interrompe, lasciando dilagare quella temporale: Noteboom subisce una mise en abyme mnemonica, registra la stratificazione di tracce storiche e biografiche che si condensano e precipitano in quel comune castigliano, comprende infine come l’oggi possa prendere le forme di ieri, o di un giorno ancora più lontano, quando i desideri erano umanissimi eppure alieni: «potessi vedere una volta soltanto la terra come una luna piena, seduto a un caffè sul deserto Mare della Tranquillità, un calice di champagne platonico davanti a me sul tavolino di platino».

foto di Emiliano Migliorucci

Adesso è un giorno di luglio 2023, e le strade bianche sono quelle della Val d’Orcia, che si inabissano a tratti in inaspettati pantani e spesso si inerpicano rubando spazio ai filari di viti, confondendo l’autista e il viaggiatore. Il borgo da raggiungere è Monticchiello, con la sua manciata di casupole in mattoni, di squarci di luce ocra, di pievi. Piazza della Commenda è la scena degli autodrammi, gli spettacoli ideati, scritti e realizzati dalla cittadinanza a partire da temi capitali per la vita del paese: incastonato tra i palazzi e affacciato sulle ripide strade del paese, lo slargo cambia pelle ogni giorno per le due settimane in cui il Teatro Povero racconta sé stesso e il mondo, aprendo come un diaframma il proprio palco al passaggio delle auto, e chiudendolo soltanto poco prima del chi-è-di-scena. Eppure è, una volta ancora, il luglio del 1969: una domenica qualsiasi e irripetibile, quella di Neil Armstrong e Buzz Aldrin a spasso sulla Luna, ma anche la domenica nella quale un paese della provincia senese fronteggia per la prima volta il proprio riflesso e recita un tempo altro, il cui ricordo brucia nella memoria di molte e molti. Così è anche il 6 aprile del 1944, e le strade del borgo sono il teatro di una battaglia tra partigiani e repubblichini, tra settanta eroi della Resistenza e quattrocentocinquanta soldati di Salò costretti alla fuga. A Monticchiello, come nella Soria di Cees Noteboom, la storia somiglia a un dedalo, e ci ritroviamo a vagare tra «tutti quei destini individuali, concentrati fino a occupare una riga nel libro degli avvenimenti, uniti gli uni agli altri nell’invisibile labirinto del tempo».

foto di Emiliano Migliorucci

Colòni, l’autodramma di quest’anno, sfida nuovamente il labirinto, e come nel precedente Ultima chiamata impasta la storia locale con quella globale, fa incontrare i vivi e i morti, infine sembra dipanare un filo lungo i corridoi edificati dai giorni e dagli anni, invitandoci a seguirlo per ritrovare un’uscita forse inedita, forse conosciuta da sempre. È un filo che, com’è consuetudine a Monticchiello, è tessuto con le vicende di quella macchia di territorio toscano: la contemporaneità rammenta così la terza edizione del teatro in piazza, quella che per la prima volta abbandonò i drammi in costume, le rievocazioni della religiosità trecentesca o delle guerre di Carlo V, e tradusse in gesti e battute, in prossemica e scrittura, eventi vissuti dalla stessa comunità. Quel 6 aprile del ’44, questo il titolo del terzo autodramma, ricordava la Battaglia di Monticchiello e lo sfiorato eccidio conseguente alla vittoria partigiana: e con questo “play within a play” Colòni offre oggi l’occasione di celebrare quanti contribuirono, nei suoi primi, seminali anni, a gettare le basi di un’esperienza più che cinquantennale. Ecco Mario Guidotti, fondamentale aiuto nella stesura dei copioni; ecco Arnaldo Della Giovampaola, regista degli spettacoli degli anni Settanta; ecco soprattutto Andrea Cresti, titolare delle regie dal 1981 fino alla sua scomparsa, qui chiamato, con affetto ed efficacia, «il più lucido di tutti». Nell’immaginazione metateatrale è la sera della prima, e gli uomini e le donne di Monticchiello si confrontano, si incontrano in piazza e condividono le paure del debutto, le ansie di successo, i timori di un progetto che ancora sembrava pionieristico. I dialoghi offrono squarci sulle politiche culturali, sulle visioni coraggiose e complementari con le quali un tale, atipico spettacolo avrebbe potuto attrarre sia «i capi-redattori delle Terze Pagine di mezza Italia» sia «i contadini della Valle», così che la rievocazione della battaglia partigiana potesse «far ribollire il sangue a tutti». Afflato popolare, impresa artistica, impegno civile costituiscono, nel 1969 e nel 2023, gli ingredienti di un rituale che si ripete identico fin dagli anni Sessanta, e che ciò nonostante cambia, lasciandosi attraversare dalle epoche e dalle sue conquiste, diventando infine un modello virtuoso di cooperativa di comunità. E la conquista di un’intera epoca, di un orizzonte interplanetario, è la tela sul quale Colòni tratteggia la vicenda dell’autodramma; la telecronaca dell’allunaggio con l’inconfondibile volto di Tito Stagno, proiettata su uno schermo circolare posto sul fondale, agisce da correlato immaginifico, spaziale e fantastico, delle speranze di un gruppo di cittadini e dell’umanità tutta, colta ora sul finire della guerra, ora all’origine del terremoto culturale e sociale a cavallo tra anni Sessanta e Settanta. Qui, nell’interstizio temporale che il dramma del 1969 riuscì a originare, collegando tra loro la Luna e Monticchiello, l’epopea di Armstrong con la Resistenza, Colòni deflagra e vagheggia lo stesso, sublime rovesciamento delle prospettive descritto da Noteboom: «per la prima volta, se ci pensate bene, avremo qualcuno che ci guarda, che ci guarda da lassù, a tutti! A noi, a tutta l’umanità! Ci siamo fatti piccini, piccini!».

foto di Emiliano Migliorucci

Adesso è un giorno del 2030, e la piazza della Commenda osserva, una volta ancora, la luna: Colòni affianca al passato dell’autodramma la fantasticheria sul domani, su un mondo ormai desertificato dallo sfruttamento, dall’incuria, dalla catastrofe ecologica. Quello della Val d’Orcia è ora un territorio da lasciare alle spalle, come già capitato a metà del secolo scorso, con la crisi della mezzadria e il progressivo spopolamento dei borghi: tuttavia la meta non è più la città, bensì il nostro satellite, dove le comunità terrestri stanno tentando di costruire nuove colonie. Ma il viaggio, si sa, richiede un prezzo in ricordi e abitudini: un costo da saldare prima della partenza, abbandonando ciò che potrebbe appesantire il razzo spaziale e compromettere la traversata. La Monticchiello del prossimo futuro si scopre indecisa, finanche egoista; nessuno è disposto a rinunciare agli oggetti ai quali ha affidato identità e desideri, o sui quali ha cercato di costruire la propria, precaria esistenza. Non ciò di cui avrebbero realmente bisogno questi romantici colòni lunari sono le carabattole, le gozzaniane «buone cose di pessimo gusto» che la gente di Monticchiello è intenzionata a portare sulla Luna, quanto piuttosto la miriade di status symbol e di merce che, a torto, sembra potere raccontare ciò che siamo e ciò che siamo stati, o forse ciò che vorremmo essere. È qui che la drammaturgia di Colòni traccia una commovente deviazione, inframmezzando la vicenda con due brevi monologhi affidati a un’anziana del paese: la sua voce è colma di una nostalgia feroce e dolciastra, della consapevolezza dell’irreversibilità del tempo che, forse, solo il teatro può ostacolare. Dalle sue parole, come da quelle pronunciate dagli altri decani del Teatro Povero, emerge in filigrana la persistenza di un conflitto intergenerazionale che già Ultima chiamata illuminava: boomer e millennial, anche nella Monticchiello del 2030, perpetuano riconoscibili frizioni, entrambi vittime di incomprensioni reciproche. Solo i bambini – tanti in scena, ogni sera, a testimoniare una continuità del progetto che nulla può scalfire – possono sperimentare nuove forme di cooperazione, mentre gli adulti soffrono di un ingenuo attaccamento alla “roba”. Ecco l’amata Vespa, le borse collezionate, un trombone, il letto, la griglia per il barbecue, un paio di sci, ecco una corrida di uomini e donne comuni e straordinari presentarsi sul palco di Monticchiello, e sulla rampa di lancio del razzo, con una commovente wunderkammer di cianfrusaglie senza la quali, pensano, non saranno in grado di abitare il corpo celeste. Ma il futuro pretende una fantasia libera dai lacci degli oggetti, della concretezza misurabile in capitali e somme: richiede la dimensione del sogno, l’essenza del teatro. Non avrà salvato Monticchiello, né noi in platea, quest’utopia che dal 1967 ha luogo a poca distanza da Pienza: ma «ci ha insegnato un modo diverso di vivere». Forse è anche grazie al teatro che abbiamo imparato a riconoscere quanto vi è di necessario nelle nostre vite: e a vedere, come ricorda Cees Noteboom, lo «spettacolo intatto di raccolti e catastrofi, migrazioni di popoli e battaglie, una terra che non conosce nomi né date, semplicemente terra».

Alessandro Iachino


in copertina: foto di Emiliano Migliorucci

COLÒNI
autodramma della gente di Monticchiello
in scena a Monticchiello, in piazza della Commenda, dal 29 luglio al 14 agosto 2023