Alice, nel dormiveglia, precipita attraverso la tana del Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie. Nuova alle leggi che regolano questa dimensione, scopre gradualmente e a sue spese che la realtà è un concetto molto più ineffabile di quanto abbia finora immaginato; che qualche volta le cose possono essere e non essere contemporaneamente, con buona pace di Amleto, e che le parole pronunciate, scritte o udite, hanno il potere di costruire e di dare forma e struttura all’universo in cui siamo immersi mentre subito dopo, con altrettanta liceità, possono privarlo di entrambe. E anche di tutto il resto.

Combat è una drammaturgia scritta da Carles Battle, drammaturgo catalano classe 1963, autore di altri testi pluripremiati, quali Temptació, presentato in anteprima simultanea nel 2004 al Teatre Nacional de Catalunya (TNC) e al Burgtheater di Vienna, Suite (1999, Premi SGAE 1999); Oasi (2001, Premi Josep Ametller 2002); Trànsits (2006-07); Oblidar Barcelona (premi Born 2008) e Zoom (premio 14 d’abril 2010). È stato direttore de l’Obrador de la Sala Beckett tra il 2003 e il 2009 e della rivista teatrale “Pausa” fino al 2017. È insegnante di drammaturgia e letteratura drammatica all’Institut del Teatre e all’Universitat Autònoma de Barcelona.
Combat è una narrazione che si incarica di compiere un passaggio, una traslazione. Di cosa? A partire da dove e verso dove? Il testo introduce due personaggi, Lui (vent’anni) e Lei (tra i venticinque e i trentacinque anni) e descrive un’ambientazione:

una piccola stanza senza particolari caratteristiche. A prima vista sorge una domanda: una cella? Una prigione, un convento, un ospedale? Potrebbe essere la stanza minuscola e spassionata di una città dormitorio o un rifugio post-nucleare. Nessun segno di personalità.
Oh sì. C’è qualcosa, qualcosa che reclama attenzione. Appesa al muro, un’immagine bicolore e, sotto di essa, fogli a strappo, i giorni di ogni mese segnati in nero e in rosso. Un calendario. Si tratta di una riproduzione di un dipinto preraffaellita: The Lady of Shallot di John William Waterhouse, dipinto nell’anno 1888, che, come tutti sanno, porta il numero di riferimento “01543” della Tate Gallery di Londra.

In che città siamo? Che anno è? Nel testo non è esplicitato. In compenso scopriamo subito che fuori dalla stanza c’è una guerra in corso. C’è Lui, solo nella stanza vuota, immerso fino alla base del collo in un’acqua nera, che parla riferendosi a una seconda persona singolare. A chi si rivolge? Intanto Lei, lunghi capelli rossi, sola nella medesima stanza, parla rivolgendosi a una seconda persona singolare, astiosamente; formula una serie di accuse e di propositi. A chi sta parlando? Al suo ex marito? A un soldato? Il lettore/spettatore si muoverà attraverso la drammaturgia costantemente nell’incertezza, esitando, senza la possibilità di trovare i riferimenti necessari per un’interpretazione sicura.

Immagine rappresentativa del testo, Catalandrama/Sala Beckett di Barcellona

La vicenda narra le sorti di Lei che fino allo scoppio della guerra civile aveva un marito e una vita normale, poi un giorno, tornando a casa, ha trovato «il tetto squarciato e il pavimento coperto di sangue». Il giorno dopo si è rifugiata nella stanza, il calendario era già lì. Una notte incontra Lui al bar, si piacciono, Lui sale nella stanza e si innamorano disperatamente. Lui deve partire, deve andare a combattere e le promette che tornerà quando la città sarà libera, ad annunciarle la vittoria, a portarla via da lì. Trascorrono quattro mesi in cui Lui combatte, Lei si prostituisce coi soldati nemici per vivere. Poi, un giorno, la guerra finisce e Lei ha paura di essere accusata di collaborazionismo. Spara al soldato che si presenta alla sua porta. Intanto Lui ha vinto la guerra, corre verso la stanza dove è Lei e si ritrova improvvisamente e definitivamente immerso in un’acqua nera, accanto all’imbarcazione che trasporta La Dama di Shallot del dipinto di Waterhouse.

Il testo si dispiega nell’arco di nove scene, numerate da 0 a 8. La scena 0 è un’introduzione alla narrazione e (seguendo la fabula) si svolge contemporaneamente alla scena 8, l’epilogo; in mezzo ci sono sette scene intermedie, sviluppate in tempi diversi e non definiti, al centro delle quali si trova la scena 4, unico dialogo tra i due protagonisti. L’organizzazione temporale presentata in Combat esercita lungo la durata dell’intero testo un’impressione di simultaneità; fabula e intreccio non corrispondono. Esplorando in lettura la drammaturgia questa sensazione emerge distintamente; la percezione di questa sovrapposizione di piani temporali potrebbe essere molto diversa assistendo alla messa in scena di un simile dramma e ricreare le condizioni per cui lo stesso effetto si attivi negli spettatori sembra sfida tutt’altro che banale.


da Combat

1.

LUI / HE: (…) Everyone kept telling you, everyone kept telling you, they told you constantly, with their eyes, their gestures, their voices. If you don’t leave, your father, your brothers… do you understand? If you don’t leave their sacrifice will have been useless. And you, you won’t have the right to say anything else, anymore… You had to do it. You had to leave, try it, cross enemy lines, leave the city and prepare, from the outside, the definitive siege, the final great, sweeping victory of your brothers. Be careful, don’t move! Not yet… (Pause.) You had to leave. You wouldn’t have been able to stand the idea that, because of you, only because of you, they had taken your land, your mountains, your trees, your sky… You would never have forgiven yourself. You were convinced that, if you didn’t do something, the poison of their language, the sulphurous stench of their skin, their barbaric habits, would inevitably poison without remedy the entire landscape of your country, slowly… and the earth would become a desert. You had to do it. You had no excuse… (…) Your mother, standing at the gate, was weeping silently, caressing your cheek with her feverish lips: she tied a red scarf around your neck and kissed you, and, later, when you were sneaking anxiously toward the trenches, you could still feel the traces of her tears imprinted on your skin. You decided not to take off your scarf until everything was over… Watch out! (Pause.) Watch out. Be careful. You’re afraid the slightest movement could ruin everything. It’s clear that, in fact, you have no idea what all this is about. (…)

2.

LEI / SHE: (…) Today, what was ours will come to an end, and, in spite of it all, I feel stronger than ever and I’m not afraid of what might happen. Today is the turning point, the last day. I know I’ve made the right decision.

Today, soon, now, they’ll knock at the door, they’ll come looking for me… they’ll come looking for me. And then, you and I will go our separate ways. And this other life will stop eating me from within.

(Silence.)

Today, you and I shall go our separate ways. But I’m ready. And I’m not afraid. No, you needn’t look at me that way, I recognize the irony in your half-opened mouth, in those fleshy red lips you always offer. They’ll knock at the door. I’m ready and, as much as you want to, you won’t be able to frighten me anymore. I’ve never seen your eyes, and I’ll never see them again. You only open them when I’m not looking at you (…)


Oltre a suggerire quella vorticosa sensazione di simultaneità impressionista, tutti gli elementi che compaiono in questo dramma si combinano in quattro sapori ben precisi:

  • L’urgenza nel tempo: «[…] non lo so, oggi è un giorno speciale, domani tutto può essere diverso», «Fermati, aspetta, fermati, fammi togliere gli stivali, i miei stivali…»;
  • La risoluzione nell’azione: «Da qualche giorno a questa parte ogni azione è come una scommessa… Lo so che sembra assurdo, ma è vero: tu sei la mia ultima giocata…»;
  • La fluttuazione nello spazio: La guerra civile che procede alla demolizione del territorio condiviso, i luoghi come spazi di transito, indefiniti, spazi in cui i personaggi, non “sono” mai, piuttosto “diventano” (farò così, quando tornerò, sarai libera, etc…), «una camera minuscola e impersonale»;
  • La minaccia incombente: «Ehi, ma non preoccuparti, porto con me un fucile e una pistola carica…», «bussano alla porta: uno, due, tre…Lei non si muove. Uno, due, tre…Uno, due, tre…».

Combat indaga le possibilità dell’incertezza, si sottrae fino alla fine alla comprensibilità lineare e inequivocabile, ci pone di fronte a personaggi senza nome, indefiniti, protagonisti spezzati e sfuggenti che cercano di sopravvivere a una tragedia lirica di amore sconfitto, che suggeriscono atteggiamenti complessi nei confronti della vita, che non ci dicono necessariamente chi sono, da dove vengono e dove vanno, e che se lo fanno, subito ci fanno dubitare della sincerità delle loro parole.

La narrazione acquisisce la forza di costruire e abitare una solida dimensione di esistenza che prescinde dal senso compiuto. Eppure la struttura di questa dimensione non crolla. Affinché questo passaggio si compia serve attraversare una soglia, che sia la tana del Bianconiglio, oppure lo specchio della stanza degli scacchi poco importa. Nel caso di Combat, la cornice che ridefinisce le leggi universali dell’intero dramma è la violenza, un’atmosfera che esplode immediatamente e improvvisamente già in apertura, nella scena 0, e che avvolge tutta la trama successiva: violenza nell’amore, nella guerra, nelle relazioni causali, nei luoghi, nei moti della coscienza e nella morte. La violenza è la soglia che legittima tutta l’apparente assenza di congruenza del testo.

The Lady of Shalott di John William Waterhouse (1888), Tate Britain di Londra.

Infine, eccola. Nella scena 8 si materializza La Dama di Shalott, è sempre rimasta lì, attaccata alla parete della stanza. Come Lei, la Dama vive rinchiusa in una torre isolata in quanto vittima di una maledizione (la stessa narrata da Alfred Tennyson in un poemetto romantico del 1833): morirà non appena i suoi occhi vedranno Camelot. Poiché la torre non è molto distante dalla fortezza del re, la Dama è costretta a vedere la vita che scorre all’esterno della sua dimora attraverso i riflessi di uno specchio. Vive, dunque, esclusa dal mondo e dalle sue emozioni, impiegando il proprio tempo a tessere una tela dai colori vivaci. Un giorno sente provenire dall’esterno uno scalpiccio di zoccoli: come Lui, Lancillotto sta passando sotto la torre in sella al suo cavallo. La dama, stanca della sua condizione di reclusa, decide di guardare fuori dalla finestra e insieme al cavaliere vede anche Camelot. La maledizione si avvera, il suo destino si compie. Morente, la dama di Shalott esce dalla sua prigione, si adagia in una barca e si abbandona alle acque del fiume. La corrente la conduce proprio a Camelot dove viene accolta, morta, da Lancillotto che rimane colpito dalla sua bellezza.

Adesso lo spettatore può gradualmente ricostruire una strada verso il significato legato alla presenza del calendario stampato nella stanza, finora inaccessibile. La morte di Lui, sublimata su tela, conferisce una dimensione cosmica a quell’amore vinto e alla sconfitta umana, sociale e politica del confronto bellico. È la vibrazione amplificata di un diapason, che consente l’espansione di un suono possente, che – ci ricorda Anna Corral Fullà nel suo saggio Devenir Carles Batlle: amor, guerra y muerte en Combat y Zoom, Estudios Filológicos, 2014 – è «in grado di squassare l’intero universo e di trascinarlo nello smarrimento della somma incomprensione; una grande eco solenne e sonora».

Fabiola Fidanza


Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto gratuitamente con una mail a [email protected]