di Davide Carnevali
Visto allo Spazio Mil di Sesto San Giovanni (Milano) _ 5-7 maggio 2011
Una tesi in una materia importante ma inutile, una laureanda sveglia ma incompresa, un nugolo di personaggi intorno, professori, giornalisti, politici, informati ma reticenti. E la verità, odorata, corteggiata, analizzata, non viene mai galla. Non si mostra mai per ciò che è, finisce nella spazzatura, diventa carta straccia, spot elettorale, propaganda da quattro soldi.
Come fu che in Italia scoppiò la rivoluzione ma nessuno se ne accorse è una delle più recenti creazioni del drammaturgo Davide Carnevali, classe 1981, voce saggia e già matura di un teatro che sceglie la parola prima di tutto. E di parole, e di linguaggio che, se ben manipolato, arriva ad alterare la realtà e la memoria, parla questo suo testo, vincitore dell’edizione 2010 del concorso Scintille, di Asti Teatro.
Nel 300esimo anniversario dell’Unità d’Italia, tutto è rimasto uguale a oggi. Siamo il solito paese addormentato, anestetizzato (parola che piace agli intellettuali contemporanei: Marco Travaglio l’ha scelta nel titolo del suo spettacolo-reading in scena in questi giorni al Ciak di Milano, aggiungendoci l’aggettivo totale per sottolineare uno stato di paralisi a tratti simile alla morte), ridicolo e ridicolizzato. Una volonterosa studentessa di storia contemporanea, sull’orlo di una crisi di nervi perché non ha uno straccio di impiego, è convinta che in passato, in un qualsiasi passato che si discosti anche di poco dall’incredibile narcotizzazione di oggi, le cose non siano andate sempre così.
Addirittura esisterebbero ritagli di quotidiani, voci anarchiche ma ben informate, esili tracce negli ambienti politici, che farebbero pensare che una rivoluzione, anche in Italia, c’è stata. Magari simile, negli intenti se non nei mezzi, alla primavera araba che oggi abbatte i tiranni e scuote le democrazie in occidente. Una rivoluzione dei gelsomini anche nel paese di Berlusconi? Proprio così. Un fatto di così epocale importanza, di potenza così detonante che, guarda caso, è stato insabbiato. Se anche questa rivoluzione c’è stata, se anche in un qualche modo abbiamo provato a liberarci della tirannia dell’immobilità e dell’obnubilamento, tutto questo è stato dimenticato, o fatto passare sotto silenzio. Proprio come quando, pochi mesi or sono, l’eco della protesta del popolo arabo è stata strozzata dalla censura del governo di Pechino che ha bloccato le ricerche dal web delle parole Egypt e Jasmine Revolution (Egitto e Rivoluzione dei gelsomini), insieme a Twitter, Facebook e agli sms che contenevano i due tag.
È questa la fine che faremo, sembra ammonirci la protagonista dello spettacolo, imbastendo un’anarchica e faticosa ricerca della verità, che a tratti assume i toni di una fiaba (come nella scenetta dei tre porcellini, una delle più riuscite dello spettacolo) mentre in alcuni momenti prova a coinvolgere il pubblico, mettendolo alla prova: siamo ancora capaci di ascoltare? Abbiamo ancora la voglia e il bisogno di esercitare il nostro diritto di critica su quello che ci viene raccontato e su come ci viene raccontato?
Il sospetto, angosciante, di essere presi in giro in ogni momento della nostra esistenza dai politici, dai media, dal nostro professore come anche dal vicino di casa, è il vivace e convincente ingranaggio attraverso cui si costruisce lo spettacolo. Però il testo inciampa nel desiderio di spiegare troppo la teoria (no alla lezione universitaria su Benjamin!), si ingarbuglia nel tentativo di esplicitare tesi e antitesi, quando invece scorre via veloce e gradevolissimo, sano esercizio di satira, nelle parti narrative e negli intermezzi, decisamente comici, tra i cinque giovani attori (Raimondo Brandi, Luca Di Prospero, Marco Lorenzi, Barbara Mazzi e Maddalena Monti), tutti dotati di ritmo e abili nella caricatura dei personaggi che interpretano. La regia di Eleonora Pippo sceglie di lasciar parlare il testo (com’è giusto che sia, quando il testo c’è) e fa spazio alla parola. Che è il cuore e l’intelligenza del teatro di Carnevali. E che, ancora una volta, si conferma il vero motore della rivoluzione.
Francesca Gambarini