Gli ‘altri occhi’ nel titolo della rassegna appena conclusa al Teatro Franco Parenti (Brecht con altri occhi, 12-27 settembre 2015) sarebbero quelli dello spettatore, con i quali “interpretare questi lavori, per addentrarsi in modo non scontato nella grande lezione poetica e politica contenuta nell’opera di Bertolt Brecht” (dal programma di sala).
‘Altri’, dunque, rispetto a quali? Non sono forse gli occhi e l’intelligenza dello spettatore gli unici destinatari del teatro di Brecht, inattuale anche perché così poco compiaciuto della dimensione estetica, così concentrato sui fatti, sul contenuto, sulle domande, attento sì ai gesti, ma assai poco alla tecnica? ‘Altri’, certo, rispetto a quelli del pubblico a cui originariamente Brecht pensava; quel pubblico verso il quale Brecht, come è noto, assunse un atteggiamento didattico; un pubblico tirato in causa e reso partecipe con cartelli sulla scena, interpellato con domande insistenti poste dagli attori che fissano spesso lo spettatore dando improvvisamente le spalle al palcoscenico e interrompendo la finzione drammatica.
La rassegna del Parenti ha riservato a Brecht il rispetto, a tratti decisamente filologico, che si ha nei confronti dei classici, ove classico non sia sinonimo di museale o passato, ma al contrario di perennemente attuale perché perennemente umano: tuttavia ogni classico va considerato con la distanza storica che gli pertiene. Così La madre (1932, tratto dal romanzo di Gorki) resta un dramma sulla pre-rivoluzione russa, che solo forzatamente può esprimere le rivendicazioni sociali ed economiche di oggi; la Vita di Edoardo II d’Inghilterra (1923) costituisce una riflessione sulla follia, la crudeltà e la fragilità del potere attraverso la riscrittura (portata a termine insieme al grande Lion Feuchtwanger) di un dramma storico della fine del ‘500 ; Terrore e miseria del Terzo Reich (1938) costituisce una raccolta documentaria dal significato politico all’epoca dirompente sulla vita quotidiana nella Germania nazista, sull’umiliazione, sull’oppressione, sulle forme di resistenza: si tratta di una serie di scene, insomma, che ci informano, dolgono ancor di più se comprese nel contesto dell’esilio di chi le scrisse, pongono anche interrogativi alla nostra consapevolezza storica: ma che sarebbe un errore, a mio parere, tentare di attualizzare (di questo aspetto si è parlato in un recente articolo uscito su Doppiozero).
I primi due drammi, tra l’altro, testimoniano quel lavoro di riscrittura che non intende annullare, ma enfatizzare, la distanza con gli originali, pur modificandoli e suggerendo (ma solo suggerendo) legami con il passato recente o l’attualità. Brecht compie la stessa operazione, immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, sull’Antigone di Sofocle (1948), in cui certo Creonte facilmente suggerisce analogie con Hitler ed il coro degli anziani ridicolizza la follia e l’avidità della classe industriale tedesca fedele al regime: eppure nell’Antigone brechtiana Creonte è il re di Tebe e Antigone, la mitica Antigone, non diventa una figura della resistenza tedesca. Distanza epica: questo il modo, penso, con cui bisogna rappresentare Brecht, con lo stesso atteggiamento, cioè, che egli stesso ebbe nei confronti dei classici: Brecht con i suoi propri occhi, alla fin fine. Ed in questo, mi sembra, i tre spettacoli a cui ho potuto assistere sono splendidamente riusciti, impeccabili sia nella regia (di Carlo Cerciello, Andrea Baracco e Fabio Cherstich), che nell’interpretazione (una segnalazione particolare va ad Imma Villa, la madre, e a Mauro Conte, Edoardo II). Tra l’altro un dramma come La madre rappresenta una rarità (se non sbaglio, non va in scena da una decina d’anni al Berliner ensemble, il teatro berlinese di Brecht). Se l’effetto della rassegna è stato, come spero, non solo sollecitare la conoscenza del teatro di Brecht, ma soprattutto delle sue ragioni ideologiche (del resto Brecht ha scritto che l’unico spettatore per i suoi drammi era Marx) e dei suoi presupposti storici e sociali, ha colto nel segno. Eppure, una rassegna come questa, pur eccellente, pone un altro dilemma propriamente brechtiano: si può rappresentare il classico Brecht in un contesto ove si lamenti la crisi del teatro? O non è piuttosto un lusso, un’operazione accademica, portata a termine “solo per gli occhi, ma non per farne uso”? Si pensi che Brecht, in un passo poi cancellato della Conversazione sui classici (1929, da cui viene l’ultima citazione), dichiarava che, sino a che il teatro non avesse perso la sua sostanza borghese e non avesse smesso di essere asservito al capitalismo, lui non avrebbe più portato in scena proprio la Vita di Edoardo II, ed avrebbe interrotto l’adattamento del Giulio Cesare di Shakespeare. Non so rispondere al dilemma: ma di sicuro, senza questa coraggiosa rassegna su Brecht, noi avremmo perso qualcosa; e non solo con gli occhi.
Sotera Fornaro