Molteplicità, difformità, ibridazione dei linguaggi: ecco alcune delle parole a cui più hanno fatto ricorso le artiste e gli artisti della seconda edizione di Tutta la vita davanti. Festival di teatro per vecchi del futuro, promosso dal centro di produzione Gli Scarti negli spazi del D!alma di La Spezia dal 24 al 26 maggio. Spesso sono stati proprio gli stessi artisti a cucirsi addosso queste etichette a maglia larga, durante la tavola rotonda ideata per tentare di colmare i vuoti rimasti in sospeso in occasione della prima edizione del festival, quando i ragionamenti sui problemi sistemici del settore teatro avevano soffocato la possibilità di riflettere su poetiche ed estetiche. Lo hanno fatto cercando di reagire allo scacco definitorio posto dalla direttrice artistica e regista Alice Sinigaglia: «Esercitiamoci con l’utopia: fingiamo, per una volta, di ritrovarci a lavorare in un sistema economicamente e strutturalmente soddisfacente, di cosa vogliamo parlare con il nostro lavoro? Quale potrebbe essere la poetica di ciascun artista/compagnia qui presente?». Una risposta possibile è quella offertaci dalla stessa Sinigaglia: al centro del percorso dell’artista spezzina si trova il racconto della marginalità, della figura dell’outsider e della sua distanza dalle norme socialmente accettate, spesso condivise solo in modo superficiale. Questo nucleo è attraversato da Sinigaglia con una molteplicità di linguaggi e un’ibridazione di generi che, come dichiarato, non costituiscono una risposta evasiva al tentativo di definizione di una poetica, quanto piuttosto un posizionamento voluto, sentito e scenicamente formalizzato. Ed è proprio questa alternanza e commistione tra i codici espressivi a rendere interessanti i lavori realizzati da Sinigaglia: mettendoli a sistema, sembra quasi di poter osservare il flusso della riflessione che, di volta in volta, orienta la scelta verso il linguaggio più adatto, quello necessario a sondare le dinamiche che intercorrono tra individuo e comunità, analizzata nei suoi diversi aspetti e nelle sue distorsioni.

foto ufficio stampa

Nel Canto del bidone (2021) gli stilemi della fiaba vengono usati per narrare avventure e disavventure di una creatura difettosa, venuta al mondo da un bidone della spazzatura; in Gargantua e Pantagruele – Cronache di uno spettacolo gigantesco (2023) il linguaggio intellettuale fallisce nel tentativo di sistematizzare l’opera di Rabelais e il caos carnascialesco che ne fuoriesce, riversando paradossalmente la follia all’interno di un consesso di accademici. Nell’ultimo lavoro, Concerto fetido su quattro zampe, in scena a TLVD dopo il debutto a Romaeuropa Festival, è invece la scrittura musicale a plasmare il racconto di un’evoluzione mancata, di un tentativo di regressione animale non intesa come arretramento, ma come possibilità di crescita, di miglioramento. La musica, per Alice Sinigaglia, non costituisce semplicemente un codice linguistico ed espressivo, ma piuttosto una modalità di strutturazione del pensiero, di ragionamento creativo, di organizzazione dello sguardo rivolto verso la realtà circostante. Lo stesso vale per suo fratello Davide Sinigaglia, coautore e interprete, insieme ad Alice, di questa struttura narrativa ideata come un concept album, dove le parti monologiche o dialogiche fungono da connettori tra un brano e l’altro, dando vita a un racconto unitario che si alterna all’esecuzione delle canzoni, accompagnate da tastiera e batteria.

foto: ufficio stampa

Per le strade di una città periferica e provinciale, due voci cantano e denunciano così lo stato catatonico di assopimento provocato dalle narrazione conciliatorie – cariche di false illusioni e sogni a poco prezzo – che quotidianamente travolgono tutti noi, e in particolare le nuove generazioni. Paiono quasi due fool shakespeariani i fratelli Sinigaglia, divertentissimi e spietati: con irriverenza riescono a decostruire le fondamenta di un approccio individualista poggiato sull’incapacità di contemplare quelle forme di collettività invero necessarie; «ho trovato me stessa, alla lotta di classe non ci penso più» cantano suscitando un’amara ilarità nella sala. Il tentativo compiuto dall’uomo di addomesticare tutto ciò che lo circonda mostra progressivamente le sue falle, il mondo animale riesce a sfuggire e rende ridicolo l’approccio umano. Lo racconta bene l’episodio cantato da Davide, nel quale una donna, per provare l’ebrezza di un contatto ravvicinato con la natura, entra nella gabbia di una tigre, finendo ovviamente sbranata dal felino. Questa ribellione diventa un’efficace metafora della fragilità e della problematicità del pensiero antropocentrico, legato all’idea che la sola presenza dell’uomo possa determinare un cambiamento, «altrimenti in natura non succede mai niente». E così un’immagine si staglia su tutte: Alice e Davide depongono i microfoni e indossano due maschere da cane e, a quattro zampe, iniziano a vagare per la scena. Si scrutano come farebbero due animali, interagisco con gli strumenti musicali e con gli oggetti creati dall’uomo incuranti della loro funzione, dando origine a un momento di tregua spontanea, non soggetta ad alcuna forma di controllo.

Ciò che ci colpisce di Concerto fetido su quattro zampe, come collettività spettatrice, non è tanto legato a una folgorante originalità dei nodi problematici affrontati – di fatto già noti ed emersi nella nostra società – quanto piuttosto alla necessità e all’urgenza con cui i due fratelli Sinigaglia danno loro corpo, voce e musica, tentando di svegliarci dal sonno anestetizzante a cui volontariamente continuiamo a sottoporci.

Alice Strazzi


in copertina: foto ufficio stampa

di e con Alice e Davide Sinigaglia
tecnica Febe Bonini
produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione
progetto selezionato Powered by Ref
un progetto Romaeuropa Festival 2023 nell’ambito di ANNILUCE_osservatorio di futuri possibili in collaborazione con Carrozzerie | n.o.t e 369gradi srl
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