di Davide Carnevali
con Michele Di Mauro e i suoni di G.u.p. Alcaro
visto nell’ambito del Festival Tramedautore _ 18 settembre 2014
Fotografia di Pino Montisci
“Il teatro può essere per la società una coscienza critica, e l’autore di teatro può essere una mente al servizio di questa coscienza” scrive così Davide Carnevali in un suo intervento pubblicato sulle pagine di Stratagemmi.
È partendo da questa convinzione che il drammaturgo trentenne (vincitore dell’ultima edizione del premio Riccione) si accosta alla composizione dei suoi testi; e un titolo impegnativo come Confessione di un ex presidente che ha portato il suo paese sull’orlo della crisi, non deve quindi sorprendere troppo. La sfida è raccontare il potere e la retorica di stampo politico mettendone in luce l’ambiguità, la pericolosità, ma allo stesso tempo anche il fascino e la capacità comunicativa.
Di recente, la riflessione su un tema di così evidente attualità è risultata una vera e propria urgenza per la scena contemporanea. Basti pensare a Discorso Grigio di Fanny&Alexander, la prima tappa del progetto che il gruppo romagnolo ha dedicato ai diversi ambiti della retorica, dalla pedagogia fino alle religione. In questa prima performance (che è stata presentata nel 2012) Marco Cavalcoli dava voce a un’impressionante orazione-blob, formata da scorie dei più noti discorsi politici. Più di recente, il teatro dell’Elfo ha riportato l’attenzione su questi temi con Frost/Nixon (2013): Bruni e De Capitani sono partiti dal testo di Peter Morgan per riflettere sulla capacità del potere di usare gli strumenti mediatici a proprio vantaggio.
Pur nell’evidente diversità di poetiche e di linguaggi scenici, entrambi gli spettacoli convergono su un punto: la cornice teatrale permette di fare emergere la dimensione intrinsecamente performativa del discorso politico. La buona riuscita dell’esibizione, in un’epoca di diffusa spettacolarizzazione, coincide a tutti gli effetti con il trionfo politico.
Anche nella Confessione di Carnevali, la questione non è diversa: il presidente (un Menem argentino che potrebbe essere, con tutta evidenza, anche Berlusconi) svela i meccanismi che stanno dietro l’orazione politica, “confessa” le strategie della menzogna. Eppure, proprio mentre lo fa, continua a fingere: il confine sfuggente tra realtà e rappresentazione – essenza stessa del teatro – è ben difficile da rintracciare nel discorso di un politico. Il presidente, a mandato ormai concluso, getta via la maschera e ammette di aver deliberatamente portato il paese sull’orlo della crisi: ma il volto che appare dopo il disvelamento, sembra avvertire Carnevali, non è meno artefatto del precedente.
Michele Di Mauro è bravissimo a non abbandonare mai il controllo, a non perdere nemmeno per un istante la consapevolezza del proprio ruolo performativo: e la confessione diventa non meno studiata e calibrata di un vero e proprio discorso elettorale.
Il testo (un assaggio delle capacità drammaturgiche di Carnevali, che emergono appieno in testi più ampi e articolati) offre così una discesa negli inferi del lessico politico contemporaneo, e l’occasione per riflettere con lucidità su ciò che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
Maddalena Giovannelli