«Bisogna far pagare la gente per il teatro che vuole, ma devi pagare di tasca tua per fare il teatro che vuoi». Cosa pensa di questa frase di Vsevolod Mejerchol’d?
Penso sia una frase sostanzialmente condivisibile. Riguardo alla prima parte: se stiamo ragionando in termini di teatro “di mercato”, dominato da una legge in base alla quale il prezzo di una merce è determinato dall’incontro tra domanda e offerta, al suo interno è necessario e sensato far pagare la gente per il teatro che vuole. Considerando la seconda parte, si tratta di circostanziare la frase chiedendosi chi la pronuncia: da un punto di vista metaforico posso leggerla dicendo che se punto a un obiettivo, a un’utopia, la devo pagare di tasca mia, anche nei termini degli sforzi che devo compiere. In un altro senso, laddove adempio a un servizio pubblico, per fare il teatro che voglio (che non è quello richiesto dal mercato) mi assumo un rischio culturale che qualcuno mi deve aiutare a sostenere. Ritengo che questa sia infatti la funzione del teatro pubblico.
Nel corso di una stagione, quanti sono mediamente gli appuntamenti che propone assumendosi un rischio totale, ovvero senza alcuna garanzia di apprezzamento da parte del pubblico e di conseguente ritorno economico nel lungo termine
Faccio fatica a rispondere, perché la ricerca del consenso non è l’ottica che utilizzo nella costruzione delle scelte. La mia strategia di programmazione non è condizionata dalla volontà di compiacere o non compiacere, quanto dalla ricerca di ciò che è necessario. Solo in seconda battuta subentra quale può essere la conseguenza nei termini di consenso. “Necessario” è, dal mio punto di vista curatoriale, ciò che corrisponde a un’esigenza comune che si avverte nell’aria, che può essere tematica o formale. Viviamo in una congiuntura in cui il teatro sta evidentemente riformulando la propria grammatica, o addirittura ne sta cercando una nuova. Penso perciò che una scena pubblica abbia il compito di aprire degli spazi in cui ricercare nuove forme di espressione. Più che dalla ricerca del consenso, sono mosso dalla volontà di interrogarmi su cosa possa rispondere alle esigenze che si avvertono e quanto lo spettatore abbia gli strumenti per cogliere e reagire alle proposte che gli vengono fatte.
Viceversa, può descrivere uno spettacolo che ha proposto proprio perché sicuro di riscuotere il consenso del pubblico?
Ci sono momenti della stagione che sono precipuamente votati a programmare spettacoli atti — ancora una volta — non a formare consenso, ma a costruire una comunità di interessi intorno al teatro. Faccio un esempio concreto: lo spettacolo di fine anno, di natura festiva, che non corrisponde a una necessità di ricerca formale o contenutistica, quanto alla necessità di costruire una comunità di spettatori che si identifichi attorno a un teatro, in un momento in cui nella società italiana non è così scontato, che non iscrive il teatro all’interno delle proprie regole e delle proprie consuetudini.
Potrei citare però anche spettacoli con caratteristiche completamente opposte, come When the rain stops falling de lacasadargilla. È chiaro che si sta parlando a interlocutori diversi e si cerca di costruire comunità più o meno allargate, cercando di creare una platea che abbia gli strumenti per seguire ciò che stai proponendo e che sia il più possibile allargata. Non è una questione di mercato o di massificazione. György Lukács nella Storia dello sviluppo del dramma moderno diceva che il concetto stesso dei piccoli teatri d’arte era paradossale, perché il teatro quando è teatro e non è spettacolo, punta ad avere le dimensioni di una città. La creazione di una comunità allargata non nasce dall’invidia verso altri media, ma dalla volontà di dare al teatro quel respiro di polis che appartiene al fare teatrale. Nella difficilissima ricostruzione, o forse proprio costruzione di una relazione con una comunità, che il teatro italiano fatica ad avere, bisogna agire con misure, respiri, raggi diversi, in un’operazione fatta di passi successivi di una strategia complessiva.
Ne La fabbrica del consenso Chomsky ed Herman affermano: «I mass media come sistema assolvono alla funzione di comunicare messaggi e simboli alla popolazione. Il loro compito è di divertire, intrattenere e informare, ma nel contempo di inculcare negli individui valori, credenze e codici di comportamento atti a integrarli nelle strutture istituzionali della società di cui fanno parte». Nel suo ruolo di operatore culturale, come sente di partecipare a questo meccanismo?
Il teatro storicamente, seppure a fasi alterne, ha sempre assolto a funzioni di questo genere. Se leggiamo l’analisi che Jose Antonio Maravall fa del teatro barocco, capiamo come una delle più grandi stagioni teatrali del mondo moderno, il “teatro del Siglo de Oro”, si fondasse sulla volontà di costruzione del consenso attorno alla monarchia spagnola. Cito questa esperienza ma potrei nominarne molte altre. Proprio in quanto potente strumento di azione sulla società, il teatro fisiologicamente diventa strumento di propaganda e di catechesi, e al tempo stesso può essere un potente strumento di eversione. Grazie alla sua natura di dispositivo sociale, che lavora sulle relazioni sociali, si presta a essere utilizzato in entrambe le direzioni
Da curatore e promotore di diversi progetti di formazione del pubblico, come può la formazione modificare la dialettica tra domanda e offerta nell’universo teatrale?
Credo che la formazione del pubblico consista nel fornire degli strumenti, che poi le persone utilizzano a proprio modo e secondo i propri fini. La formazione non è la traduzione della verità, ma la trasmissione di un sapere metodologico. In senso brechtiano, la formazione dà la possibilità di formarsi un’idea, che poi ciascuno gestisce secondo le proprie convinzioni. Si tratta di dare allo spettatore un bastone per sollevarsi e seguire proposte sempre più articolate e stimolanti. Poi, essendo lui un essere senziente, sceglierà se usare quel bastone per alzarsi e muoversi nella direzione da me indicata, o per darmi delle legnate.
a cura di Gabriele Orlandi e Michele Spinicci
Intervista pubblicata su Stratagemmi 38-39 – “La platea del consenso”.