A cosa serve parlare di violenza sulle donne? Quanto ci toccano davvero i racconti che quasi ogni giorno invadono le nostre cronache occidentali? Quanto falso sentimentalismo siamo portati a usare quando li ascoltiamo al telegiornale? Quanto ci distanziamo da essi nel condannarli? Perché in fondo sentiamo che non ci riguardano, che sono cose “da mostri”, cose che noi bravi umani non potremmo mai fare?
Nina Raine scava e rovescia queste domande in una drammaturgia potente e intelligente, intitolata Consent (edita Hern Books – NHB Modern Plays, 2017). Figlia d’arte del poeta Craig Raine e della saggista Ann Pasternak Slater (nientemeno che la nipote di quel Pasternak), la drammaturga e regista inglese classe 1975 arriva a questo quarto testo dopo i successi di Rabbit (2006), Tribes (2010) e Tiger Country (2011) e dopo aver curato diversi allestimenti nei più importanti teatri di Londra.
Consent è la storia di tre coppie della borghesia londinese, i cui mestieri ci dicono già molto della trama: la coppia principale è composta da Edward (avvocato) e Kitty (editor); poi gli amici stretti, Jake e Rachel (avvocati entrambi); infine un collega di Edward, Tim, e un’amica attrice, Zara. La prevalenza di legali da un lato, le coppie eterosessuali dall’altro rappresentano i due cardini essenziali della drammaturgia. Cardini che vengono scossi dal tema della consensualità, legata in particolare a due casi di presunto stupro. Nel primo atto la violenza è subita da Gayle, una donna scozzese difesa da Tim e accusata da Edward. Dalle discussioni in salotto – scena principale dei dialoghi di Consent – capiamo che quest’ultimo ha vinto la causa. Col passare delle scene, il tema dello stupro di Gayle contribuisce a turbare quelli che si presentano come dialoghi brillanti, dai ritmi dinamici e coinvolgenti in perfetto stile inglese. Ne rompe l’equilibrio, sconvolgendo le atmosfere borghesi, fra feste e frecciatine, fra schermaglie e problemi di coppia, e facendo emergere contraddizioni etero-normative e false certezze su giustizia e realtà. Ed è proprio Gayle a dare il colpo di grazia, irrompendo nel salotto di Kitty ed Edward e dimostrando, con la sua dura tristezza, che stavolta la grande giustizia non ha funzionato.
Nel secondo atto è invece Kitty a subire violenza, ad opera di Edward. Sì, la coppia quasi perfetta che dava consigli sul matrimonio ora si ritrova al collasso, quasi senza saperlo. L’episodio di Gayle ha rotto qualcosa di profondo, ha distrutto la fiducia, ha fatto capire qualcosa a Kitty e distrutto la vita sicura e rampante di Ed. La prima ha imparato che le parole e la ragione non possono sostituire i sentimenti, né tantomeno sopraffarli. Per questo, forse, si innamora di Tim. Il secondo, ormai incapace di vincere una qualunque causa, si sente tradito da questa relazione con il suo rivale storico di tribunale. Portando i dialoghi sempre più in bilico sul filo tagliente del “consenso”, Raine costruisce una vera tragedia delle emozioni, un incastro di dolori e violenze che impone il processo più difficile che questi uomini-avvocati abbiano mai affrontato: quello a se stessi.
da Consent (act. I, sc. 9)
EDWARD: I’m sorry –
GAYLE: Yeah, and then yer erse fell off. Oh dry yer eyes, you’re no ‘sorry’, don’t give me that shite. I saw yer face, didn’t I?
You were right chuffed. You won.
Beat.
EDWARD: Look –
GAYLE: Don’t tell me it wasne personal. It was personal for me, pal.
She looks around the room. Addresses the others.
This interesting to ye?
This lot, they your mates?
ZARA takes a step towards GAYLE.
ZARA: Would you like a drink?
Can we at least get you a drink?
But GAYLE is looking at KITTY.
GAYLE She your wife?
No one says anything.
(To KITTY) How long you been with him then?
Beat.
Yeah, so I know where you live. (To EDWARD.) It was easy, following you. You never stop looking at your phone, do you.
I know where you live and you dinnae like that, do you.
Well you know what, Patrick Taylor knows where I live. So now you know what it feels like, eh?
Beat.
EDWARD: Look. Unfortunately, Gayle, unfortunately for you, we presume innocence, because better a guilty man goes free than an innocent go to jail.
GAYLE: Why? Who says that’s better?
JAKE: The law, for Christ’s sake.
RACHEL: Do you feel you –
GAYLE: You don’t look so happy either, babes, I’ll tell you that for free.
TIM: Look. An injustice took place –
But GAYLE is sniffing the air, suddenly interrupts him.
GAYLE: You been smoking?
No one answers.
Yeah, you’ve been smoking weed. Christ, I cannae believe that it was in your hands. He – (TIM.) met me for the first time five minutes before and then I had to watch you fight it out, what a fucking mess.
EDWARD: It might have helped if you hadn’t turned up drunk on the second day.
TIM: Ed, Ed, Ed. Shush. (To GAYLE.) I understand you must feel –
EDWARD: No, let me finish, the law’s not going to work according to your emotions, Gayle, because it’s got to be dispassionate, it’s got to be impersonal –
GAYLE: But it wasn’t.
EDWARD: – it’s not about satisfying your personal sense of outrage, because if it was, it wouldn’t be fair and that is the whole fucking point. I’m not going to apologise for the fact that I’m friends with him and I’m not going to apologise for cross-examining you.
GAYLE looks at him coolly.
GAYLE: What you did to me was criminal.
Pause. She turns to go. She turns back.
You know what. You don’t even know why I was having therapy.
EDWARD: No, I don’t.
GAYLE: ’Cause I was raped, that’s why. Years ago. Before Patrick Taylor. Ten years ago. Me and my sister hitchhiking, two blokes, picked us up and took us to the woods.
They did us side by side.
That’s why I was having therapy. Ten years later. Because I was raped.
She goes to the door. Stops.
I held her hand while it was going on.
Suddenly, she starts to cry.
KITTY goes to her. Tries to hold her.
KITTY: I’m sorry.
GAYLE: Don’t touch me.
GAYLE cries.
Lo svelamento di Gayle mina le fondamenta di cosa intendiamo per giustizia, perché ci mette di fronte a una realtà che non siamo più in grado di governare. Anzi, non siamo mai stati in grado di farlo. Non lo è stato Edward, convinto che la legge e la realtà siano qualcosa di oggettivo, incontaminato, spassionato, razionalmente governabile. E pur vincendo la causa contro Gayle, pur credendo di essere stato perdonato da Kitty per un tradimento di molti anni prima, si ritrova a constatare, nel secondo atto, che il “suo” reale non funziona più, e a doversi ricredere sul rapporto univoco fra ragione e emozioni, mente e corpo. Il consenso non è bianco o nero, si slega dall’asprezza delle parole poiché riguarda il nostro modo di guardare l’altro, il mondo, le persone a cui ci leghiamo.
Calata nella quotidianità di coppie borghesi, la consensualità si fa conflitto fra sguardi opposti, fra letture opposte della realtà. La tragedia, viene ricordato da Zara, ha proprio a che fare con questa inconciliabilità: ogni personaggio della tragedia deve essere pronto a perdere qualcosa, a conoscere col proprio corpo questa perdita, altrimenti non accetta la realtà. E questo passaggio doloroso, questa tragedia, pur essendo evidente nello stupro, è già presente nel tradimento. Sentirsi traditi – più che comprendere di esserlo – contiene già una rottura del consenso, una violenza.
Una delle scene più belle di Consent consiste in una sorta di mise en abyme: Zara deve fare un provino per una serie BBC in cui potrebbe interpretare il ruolo di un’avvocata e chiede a Tim ed Edward di darle qualche consiglio, di insegnarle movenze e strategie del loro lavoro. Ebbene, i due avvocati ingaggiano un vero e proprio duello, gonfiando il petto e dando prova della propria bravura nel saper manipolare il racconto di un testimone, mettere quest’ultimo alle strette senza remore, giocando con la realtà al solo scopo di convincere la giuria. Edward ne è convinto: «There are a lot of chaotic facts and you want to pick your way through and convince the jury of one simple line. […] Make them see it from your client’s point of view». E Tim non è da meno: «Well, a question isn’t always a question. A bald statement can be camouflaged as a question». Dietro un tema classico dei tribunali occidentali c’è molto delle nostre esistenze, del nostro quotidiano recitare il reale, rileggerlo a nostro piacimento. Tutto ciò fa deflagrare il senso della parola giustizia, anche nel nostro quotidiano. La realtà smette di esistere quando dimentichiamo persone ed emozioni, quando viene giudicata attraverso lenti razionali, logiche. E soprattutto: maschili. Nina Raine esplora i rapporti della coppia tradizionale lasciando intravedere i sostrati della cultura occidentale e maschilista che ancora, implicitamente, la governa. La fede in un’unica realtà e in un’unica giustizia porta le stimmate del maschilismo, stimmate che rivelano tutta la propria infondatezza e ipocrisia quando gli uomini entrano in difficoltà. La parabola di Edward ne è l’esempio più calzante, ma pure il più cauto e timido Tim non è del tutto esente da questa contraddizione: fin dalle prime scene racconta di essere perseguitato da un fantasma invisibile, i cui segnali (un orario proiettato alla parete, un bollitore che cade, graffi sul muro) trovano misteriose e significative coincidenze con la violenza di Gayle. Che sia una persecuzione notturna o alla luce del sole, questa sorta di rivincita sugli uomini incarnata dal caso di Gayle non ha solo risvolti negativi. L’urlo scomposto di quest’ultima, anzi, si innalza a grido liberatore contro una società malata, fallocentrica, egocentrica. A posteriori, riconosciamo in lei il personaggio invisibile che gira nel salotto di Edward e Kitty nella prima scena, il fantasma che sconvolgerà le notti di Tim: questa invisibilità è fantasmagoria e paranormale solo davanti agli sguardi opachi di queste coppie perbene e di noi lettori-spettatori borghesi.
A tal proposito, Nina Raine gioca con i tempi delle scene attraverso sottili rimandi di gesti, movimenti, azioni che rimano anche a distanza di un atto: ad esempio il telo che scopre e ricopre i divani della nuova casa. Davanti a questo potente affresco si insinua presto l’idea che il contenitore scenico possa varcare i limiti temporali imposti da scene e atti e che ciò che abbiamo davanti sia, ancora una volta, soltanto una delle mille possibili letture di Consent.
Lo stesso avviene a livello scenografico. Nonostante le ambientazioni riguardino quasi sempre salotti (fatte salve qualche aula del tribunale e una cucina) e nonostante gli oggetti in scena siano pochi, Raine punta tutto sul simbolo per eccellenza dell’arredamento borghese: il divano. I divani di questi saloni della city accolgono conflitti ipocriti e contraddittori, aperitivi e flirt, circoscrivono il ring della dialettica emotiva. Simbolo principale della casa, i personaggi non sanno mai come posizionarli per far quadrare i conti: vengono spostati in continuazione, senza mai trovare la collocazione giusta. Così come il tempo, lo spazio rivela la sua inconsistenza, la sua fragilità, il suo essere alle dipendenze dell’ego umano. E alla fine della drammaturgia si ha la sensazione di non essersi mai mossi da qui: tutto pare condannato a dover ricadere sempre fra questi mobili.
Ed Edward e Kitty? La loro lotta, attraverso il dolore, diventa una lotta fra visioni del mondo, fra generi, fra linguaggi, e solo alla fine torna a essere un conflitto fra due personaggi. Affinché un nuovo, ultimo incontro sia possibile, ormai non basta più chiedere scusa: una richiesta di perdono autentica non potrà mai venire dalle parole ma dall’esperienza, dal corpo, da un vissuto che nessuna parola può sporcare. Ci vorrà un gesto per lasciare una speranza a loro e a noi spettatori: scoprire di nuovo un divano, piegare il telo che lo ricopriva, provare (ricominciare) a far combaciare gli orli.
Riccardo Corcione
(Foto di copertina: Andy Parsons)