Calapranzi ha dedicato a Esteve Soler un piccolo “focus nel focus”: la sua Trilogia della Rivoluzione (2017) ha infatti scandito la nostra incursione nella drammaturgia catalana contemporanea, iniziata a novembre 2020.
Con le letture di Contra la Libertad, Contra la Igualdad e Contra la Fraternidad ancora fresche nella memoria, abbiamo deciso di chiudere questo percorso attraverso la voce dell’autore, intervistandolo. Abbiamo pensato alla struttura e ai contenuti di questa conversazione a distanza (avvenuta in un fitto “carteggio” via e-mail) come un piccolo omaggio alle sue “opere-contro”, alle sue decostruzioni paradossali e grottesche dei grandi concetti della civiltà occidentale. Sette domande, o punti, come le scene di ogni Contra, e una piccola sfida finale: rivolgere quel “contro” tanto disarmante e tanto rivoluzionario al teatro stesso. Tra le domande e le risposte, riportiamo anche tre immagini: quelle che Esteve Soler ha posto in rapporto con le drammaturgie della sua trilogia, e che ha commentato in didascalia.
1. Sei passato dalla Trilogia dell’Indignazione (Contro il progresso, Contro l’amore, Contro la democrazia) alla Trilogia della Rivoluzione (Contro la libertà, Contro l’uguaglianza, Contro la fraternità), in un processo di decostruzione che ti ha posto “contro” i vuoti principi democratici. Questa tua peculiare decostruzione è un modo in cui il teatro può essere (ancora) rivoluzionario?
Credo nella democrazia. Ma “democrazia” è una parola costantemente stuprata dal potere. Le mie opere “contro” vogliono avvicinarsi a delle parole che ai giorni nostri stanno cambiando drammaticamente. È per questo che le idee di Progresso, Amore o Libertà hanno lo stesso valore nei miei lavori. Tutti i miei testi si occupano di un problema concreto che non posso risolvere, qualcosa che mi preoccupa insomma. E nulla è più urgente, contemporaneo e ovvio di un cambiamento inarrestabile. La nostra generazione subirà uno shock climatico che cambierà per sempre le nostre vite. In senso politico, ma anche emotivo. In tutti i sensi, a dire il vero. Se il teatro vuole continuare ad avere un pubblico, dovrà essere rivoluzionario. O almeno tanto rivoluzionario quanto lo saranno le nostre vite.
2. Cosa significa per te essere un autore spagnolo che scrive in catalano? Come ti relazioni con le due lingue in quanto drammaturgo, sia artisticamente che professionalmente?
Non mi crea nessun problema. A volte scrivo i miei testi in catalano e poi li traduco subito in castigliano. O viceversa. E sempre, dopo la prima versione, li mando ai miei traduttori inglesi, italiani, greci… Davvero, non è un problema. Un drammaturgo non dovrebbe guardare alle bandiere. Nessuno, in nessun paese, dovrebbe. Non voglio essere categorico, ma in generale, le bandiere sono pericolose. Provo pietà per chiunque sia attaccato a una bandiera. Qualsiasi tipo di bandiera. Le bandiere sono semplificazioni, piene di emozioni legittime, ma facilmente manipolabili. È il modo più facile in cui un qualsiasi tipo di potere riesce a manipolare le masse cieche. Ogni drammaturgo ha bisogno di assumere uno sguardo, una prospettiva per capire la realtà e una bandiera è soltanto una benda colorata sugli occhi. Non credo nelle bandiere. Non c’è bisogno di nessuna bandiera per esprimere ciò che è inumano. È di questo che parlano le mie opere.
3. La Trilogia della Rivoluzione è divisa in tre “contro”: Contro la libertà, Contro l’uguaglianza, Contro la fraternità. Ognuno è ispirato a un genere letterario del passato, che indichi in esergo: parli di teatro dell’assurdo per la Libertà, di «piccole scene esperpentiche» per l’Uguaglianza e di «piccoli pezzi grotteschi» per la Fraternità. Perché hai scelto questi riferimenti? C’è un collegamento tra queste tradizioni e il formato delle tue trilogie, con la loro struttura rigida (7 scene per ogni contro)?
Amo i generi dimenticati o poco sfruttati. Con Contro il progresso, Contro l’amore e Contro la democrazia [Trilogia dell’indignazione] ho esplorato il Grand Guignol, il Surrealismo e il Burlesque e ho pensato che sarebbe stato magnifico continuare ad alimentare questa fiamma. Credo aiuti il regista a trovare una prospettiva estetica e ovviamente è un modo divertente di esplorare le connessioni tra la nostra realtà e la deformità di quei generi. Quanto al numero sette, compare molte volte nelle opere. In modi diversi. Anche negli adattamenti cinematografici. Sì, è qualcosa di significativo per me. Ma devo ammettere che è anche più facile per me concentrare le idee in 7 scene caleidoscopiche di 10 minuti. Solitamente funziona molto bene sulla scena. Quindi non è solo qualcosa di filosofico, ma è anche molto pratico.
4. Le tue opere sono spietate e molto franche. Per esempio, verso la fine di ciascuna delle tre parti della Trilogia della rivoluzione, i personaggi tendono a rivolgersi al pubblico in maniera più diretta. Che relazioni vorresti stabilire con i tuoi spettatori? Vista la forma accattivante delle tue trilogie, cerchi anche di raggiungere un pubblico che non è abituato al teatro?
Sì. Sì. E sì. Aiutiamo un poco il pubblico a tornare a teatro. Qualche volta i critici comparano le mie opere a una scatola di cioccolatini velenosi. Tutto sembra attraente e meraviglioso, ma dentro il cioccolato trovi il veleno, magari un veleno dolce, magari un veleno che ti sveglia, ma pur sempre un veleno. In genere è molto difficile dare una risposta al perché così poca gente vada a teatro. Ma proverò a illustrare il mio punto di vista. Nell’antica Grecia il teatro era il luogo in cui i cittadini si confrontavano con tutto ciò che contava, per vedere la realtà con occhi diversi, per discutere temi complessi che riguardavano la loro città, le loro vite… Però il potere contemporaneo non vuole cittadini nelle nostre città, vuole solo consumatori. Il potere odia il teatro.
L’ultima parte dell’intervista ci piacerebbe che fosse più in linea con i tuoi “contro”. Potremmo chiamarla “Contro il teatro”. Perciò ti chiediamo di proseguire queste frasi nel modo che preferisci, pensando che contengano, anche se in minima parte, una piccola verità.
5. Il teatro non è libero perché… non lo sono le nostre credenze. Ma, sul palco, le convenzioni ci rendono liberi.
6. Il teatro non è egualitario perché… non lo sono i nostri desideri. Ma, sul palco, mentire ci rende uguali.
7. Il teatro non è fraterno perché… noi non lo siamo. Ma, sul palco, la pura creatività lo è.
A cura di Riccardo Corcione, Jacopo Giacomoni, Teresa Vila
(Foto di copertina: © Angel Torrent Xandri)