Chi avrebbe mai potuto immaginare che sul finire degli anni ’60 Kathrine Switzer, determinata a inseguire un sogno, avrebbe corso la Maratona di Boston aprendo così la strada alle rivendicazioni per la partecipazione femminile in ambito sportivo?
Il palco all’aperto allestito nello spazio di Nuovo Armenia ospita Chilometro_42 (produzione di Progetto Superficie), che con la presenza in scena della sola Angela Ciaburri riesce nel faticoso tentativo di ripercorrere le tappe di vita dell’attivista: dal periodo dell’infanzia e dell’adolescenza, con i primi anni di scuola e l’ingresso mancato nella squadra delle cheerleader, fino alla decisione di fare della corsa un motivo di celebrazione delle proprie capacità e delle proprie aspirazioni.
La drammaturgia di Giovanni Bonacci evidenzia da subito una contrapposizione tra l’educazione ricevuta in famiglia, alla pari col fratello maschio, e la realtà della società statunitense del secondo dopoguerra: le donne, si dice nello spettacolo, si scontrano con il paradosso di un Paese che le esaltava come espressione del benessere e della libertà d’azione ma al contempo le marginalizza perché considerate fragili e inadeguate. L’unica attività consentita alle giovani studentesse dei college è appunto il cheerleading, di cui l’interprete imita macchinosamente i movimenti, esprimendo il tentativo di omologarsi a una comunità-modello da cui ci si sente esclusa. È proprio il padre di Kathrine che la spinge al primo gesto controcorrente rispetto alla sua epoca: gettare via i pompon, togliersi i tacchi e indossare un paio di scarpe da tennis. Da quel momento in avanti, assecondando la sua passione per la corsa, i ritmi della vita della ragazza si sintonizzano con i tempi della rivoluzione musicale e della nascita del rock, e sotto le musiche di Elvis Presley – ripercorse dall’adattamento live di Munendo – la gonna e la camicia indossate da Angela lasciano posto a una tuta da ginnastica.
Con l’inizio dell’università arriva anche il primo allenatore, che decide di seguirla insieme a tre ragazzi: davanti agli occhi di Kathrine si dispiega con sempre maggior chiarezza la disparità costitutiva tra uomo e donna, a cui la società ha imposto, e continua a imporre, un tempo e uno sforzo maggiore per occupare quello spazio che agli uomini viene concesso con maggior facilità, poiché non è davvero concepito «un mondo dove ci sia spazio per tutti». Di fronte a un modello culturale sorretto dal culto del self-made man, che promuove un liberismo economico e un’autonomia personale come diritti inalienabili dell’essere umano, la realtà dei fatti americani tradisce i principi della Dichiarazione d’indipendenza, come testimoniano per esempio le voci di Martin Luther King, Mick Jagger e Aretha Franklin. Così, imparando a regolare il fiato, a inserirsi in una squadra di corsa maschile e esserne riconosciuta come un membro a tutti gli effetti, la giovane atleta riesce a percorrere cinque miglia in trentacinque minuti.
Il risultato ottenuto s’imprime nella mente della ragazza accanto alla celebre affermazione «I have a dream»: è permesso a una donna correre un’intera maratona? È permesso a una donna scegliere non un circuito qualunque, ma la Maratona di Boston, la più antica del mondo? È permesso a una donna inseguire il suo sogno? Con l’inserimento del proprio nome nella lista dei partecipanti contrassegnato dalle sole iniziali, prende avvio il rush finale dello spettacolo: il 19 aprile 1967, in mezzo alla vasta moltitudine di atleti, Kathrine constata di essere l’unica ragazza a partecipare. Il suo è il numero 261: a pieno titolo in gara. Con il viso accaldato, carica di entusiasmo e determinazione, Ciaburri rincorre con le parole i pensieri della maratoneta: al ritmo delle scarpe che sbattono sul terreno scandendo il tragitto conquistato chilometro per chilometro, le esclamazioni «you are a hero» si accompagnano alle grida «you fucking bitch», finché un organizzatore della competizione tenta di buttarla fuori dal percorso, ma senza successo. L’umiliazione e il terrore si trasformano in un senso di rabbia e rivincita: Switzer raggiunge il traguardo con la coscienza di aver segnato una tappa nella battaglia per il riconoscimento femminile nello sport. In un’epoca in cui le atlete vivono spesso una pressione psicologica insostenibile, come quella che ha portato recentemente al ritiro di Simon Biles dalle Olimpiadi di Tokyo del 2021, ci chiediamo «in che direzione va la violenza» e quanto tempo ci possiamo permettere, tra fallimenti e successi, perché si verifichi uno scarto rispetto al passato, perché prenda forma davvero un cambiamento.

Giulia Storchi


in copertina: foto di Davide Aiello

CHILOEMTRO_42
scritto da Giovanni Bonacci
diretto e interpretato da Angela Ciaburri
musiche live di Munendo
prodotto da Progetto Superfice
luci Marco Laudando

Contenuto scritto nell’ambito dell’osservatorio critico di FringeMI 2024