di Stefano Massini
diretto e interpretato da: Manuela Mandracchia, Sandra Toffolatti, Mariangeles Torres
visto al Piccolo Teatro di Milano _ 1-20 dicembre 2015

Dopo l’epopea a stelle e strisce di Lehman Brothers e la Cecenia di Donna non rieducabile, Stefano Massini punta l’attenzione su un altro luogo simbolico, cioè quella triangolazione del dolore e dell’orrore che si condensa fra Gerusalemme, Tel Aviv e Gaza, tre città differenti eppure contigue. Con Credoinunsolodio – un testo potente del 2011, valorizzato ora da un’accurata messa in scena e un’ottima interpretazione – l’autore si mostra ancora una volta capace di toccare i gangli problematici del contemporaneo.

L’invenzione drammaturgica di Massini pone a confronto tre donne: una studentessa palestinese aspirante martire, una professoressa di storia ebraica e una soldatessa americana. L’architettura verbale si regge su un artificio straniante ma di grande efficacia. I monologhi intrecciati delle protagoniste si svolgono infatti in una “presa diretta” ex-post: esse sono narratrici onniscienti del proprio frammento di storia (anche interiore) e ripercorrono a ritroso i sentieri separati ma contigui che le hanno portate al fatale incontro in un bar di Tel Aviv.

Oltre alla cura per questa frammentazione parallela dell’istante, il gruppo Mitipretese (le interpreti-registe e lo scenografo Mauro de Santis) ha saputo restituire la contiguità spaziale: le attrici si muovono in un ambiente unico, che è simultaneamente tutti i luoghi della pièce (interni ed esterni), mentre sul fondale si staglia una porta di legno straziata forse da un’esplosione, simbolo delle devastazioni di questo mondo desolato. Non solo: come in altri testi di Massini, la realtà sembra rarefarsi progressivamente in una dimensione onirica. La regia traspone questo aspetto anche sul piano visivo con calibrati effetti di luce e suono e attraverso una sorta di duplicazione scenica: sedie e tavolini stanno anche sospesi in alto e incombono creando un’atmosfera surreale, oppure grazie a meccanismi tecnici invisibili calano giù, a popolare la scena di “vuoti”, più che di presenze.

Nella quotidianità impossibile di queste città ferite, dove la tensione si misura sul conteggio giornaliero delle vittime, ogni certezza viene sgretolata e tutto si polarizza. Lo spazio, il mondo e le espressioni vitali (gioia, dolore, aspirazione alla felicità) sono contesi fra “noi” e “loro”, in un capovolgimento continuo e pervasivo delle prospettive: violenza e sopraffazione sono addossate agli altri, e così lo spargimento di sangue diventa “vile vendetta” oppure “necessaria misura di sicurezza”, in una morsa sempre più stretta dove falliscono anche l’umanità, la ragione e la cultura del dialogo, cozzando contro gli istinti primordiali di paura e sopravvivenza. Il conflitto noi/loro si allarga fino allo spettatore, posto di fronte ai drammi di una realtà geopolitica complessa e distante, una percezione esterna convogliata dal personaggio dell’americana Mina, che osserva un mondo impazzito, un labirinto di segni, precetti, giudizi e parossismi spesso incomprensibili.

La recitazione è intensa e senza sbavature, vibratile nei chiaroscuri dei personaggi: Eden, così umana nei suoi dubbi che la sviano quasi verso l’intolleranza (Mariangeles Torres); Shirin e la sua discesa agli inferi con radi bagliori di innocenza (Manuela Mandracchia); la solitaria Mina che, armata del suo mitra e di cinismo, sa riconoscere con chiarezza i vantaggi di un Occidente teso alla difesa del “conveniente” più che del giusto (Sandra Toffolatti). Sono tre donne diverse ma uguali perché travolte dalla guerra, “troiane contemporanee”, come rilevano le attrici nel libretto di sala, in una linea di continuità ideale con il lavoro Le Troiane. Frammenti di tragedia (2014).
Infine, il gioco verbale del titolo fa presa sul paradosso dio-odio: un dio che divide invece di unire, l’odio che monta e si scherma dietro il nome di un dio, o anche l’odio verso un dio che assiste impotente alla carneficina quotidiana. In fondo è Dio il grande assente di questo intreccio di storie, dove non è prevista la catarsi (nemmeno oltremondana). Perciò le pedine in un angolo della scena, che rotolano se urtate all’improvviso, sono chiaro segnale della nostra precarietà di esseri umani.

Gilda Tentorio