di Javier Daulte
regia di Carolina Raquel Sylwan
visto allo Spazio Tertulliano_dal 28 Maggio al 1 Giugno 2014

Nella battaglia impari tra paziente e analista, nell’intromissione nell’altro a sondarne l’inconscio, nel ricomporre ordine e normalità, non sempre tutto va come deve…
Lo racconta Criminale di Javier Daulte, uno dei drammaturghi argentini meno noti alla nostre cronache teatrali: dopo la messinscena dello scorso inverno di Manuela Cherubini, a riportare sulle scene il testo di Daulte è Carolina Sylwan, classe 1985, diplomatasi alla Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano.

Si tratta di una commedia amara in tipico stile argentino, per come abbiamo imparato a conoscerlo attraverso i recenti fasti di Spregelburd: dietro un’apparente leggerezza, nascosto da toni apertamente briosi, aleggia una tensione drammatica sottile che fa capolino tra le pieghe della narrazione, conferendo alle vicende spessore e riflessività in chiave tragicomica.
Nel caso di Criminale il nodo drammatico ruota intorno a una coppia in crisi, Carlos e Diana, entrambi in cura presso due analisti molto diversi tra loro: quello di lui, il Dottor A, è cinico ed estremamente distaccato, quello di lei, il Dottor Bueras, partecipe e appassionato. L’intrigo di relazioni che ne deriva si allontana man mano da qualunque ratio fino a sfociare nel crimine.

Nella sua messa in scena Sylwan sceglie di potenziare l’aspetto spensierato-giocoso dell’opera facendo sì che i suoi attori spingano soprattutto sul pedale della comicità: i dialoghi sono spesso serrati, le battute si rincorrono a creare un clima di divertente concitazione, a metà tra nevrotiche atmosfere alla Woody Allen e quelle di una commedia slapstick. Anche i cambi scena (che avvengono in un impianto scenografico fisso e stilizzato che rappresenta gli studi dei due dottori) tendono a sottolineare il tono surreale delle situazioni, sempre, o quasi, sopra le righe. I personaggi entrano ed escono ballando, in più di un’occasione interpretano veri e propri ‘stacchetti’ musicali; ed è sempre al commento sonoro – a tratti esplicitamente didascalico – che viene affidato il compito di incrementare l’effetto grottesco delle gag, quasi a consigliare al pubblico quando ridere. Non è necessario: il comparto farsesco funziona a dovere (soprattutto grazie all’energia di Federico Manfredi e Alessandro Lussiana), il rischio semmai è che lo spettacolo si concentri troppo sul desiderio di divertire trascurando complessità e chiaroscuri del testo.

Se l’efficace incipit – in cui attraverso l’uso di una serie di ‘flash’ vengono messi a fuoco alcuni dettagli di ambienti e personaggi – sembrava dichiarare un intento di detection, quasi a suggerire che nel mistero della trama fosse inscritto anche quello dell’uomo contemporaneo, lo svolgimento si limita invece a mantenere lo spettatore sul binario di una narrazione, sicuramente ben condotta, ma almeno parzialmente spogliata delle sue problematicità.
Restano così solo accennati il ribaltamento carnevalesco dei ruoli vittima-carnefice/paziente-analista, la supremazia finale di un’amoralità eversiva e vitalistica che rifiuta di essere imbrigliata dalle logiche della società e della ragione. Resiste maggiormente l’attacco polemico nei confronti dell’autocompiaciuto credo psicanalitico, il cui desiderio di onnipotenza viene colpito causticamente: i due campioni ufficiali del ‘dogma’ rivelano nel continuo battibeccante scontro tutte le loro meschinità. La giovane compagnia (tutti i membri sono under 35) offre un piacevole divertissement da bersi d’un fiato che, pur non proponendo una prospettiva di particolare complessità, brilla per fruibilità e leggerezza.

Corrado Rovida