Scena vuota. Musica tribale. Quattro danzatori si succedono nello spazio dando vita a quattro performance estremamente diverse.
#1 Sul fondale vengono proiettati statici disegni pseudofigurativi mentre il performer Matteo Sedda si frappone tra la luce del proiettore e la parete, cristallizzando il suo corpo in una serie di pose. La sua ombra diventa parte integrante dell’immagine sul muro e sul suo corpo si blocca il tratto grafico del disegno proiettato. Stacco.
2# Kumar dissemina per il palcoscenico sottili fogli colorati. Ricordano quasi l’Amazing Grace di Nari Ward. Con una gestualità fluida e costantemente fuori asse, spesso elaborata rasoterra, il danzatore si muove nello spazio segnato dai fogli dai colori sgargianti per terra. Dopodiché ne raccoglie alcuni che usa per coprirsi il volto, quasi a comporre una maschera da Los dias de los muertos. Stacco.
3# Il corpo della Wolowiec è in costante precario equilibrio: sebbene abbia i piedi piantati a terra, sposta il peso avanti e indietro. Vacilla, talvolta cade. Ma è resiliente: si aggrappa ai corpi degli altri, lotta contro sé stessa, si rialza ancora ed ancora. Stacco.
4# Infine (ma non è la fine), Sly sparge per lo spazio scenico una sabbia fine, abbandonandosi a una danza tribale. Saltella su un piede come nei balli rituali di un nostro eterotopico immaginario dell’Africa.
I quattro «danz-autori» di Crossroads hanno maturato le proprie esibizioni durante un periodo di permanenza in paesi esteri nell’ambito del progetto MIC Boarding Pass. Accompagnati da artisti locali (appartenenti agli ambiti più disparati), hanno avuto la possibilità di fondersi con il luogo d’arrivo e di aderire a pratiche, prospettive e convenzioni estetiche e rituali autoctone. Sedda ha lavorato a Calcutta con un artista visivo; Kumar con un compositore messicano; Wolowiec con un videomaker in Libano; Sly con un musicista senegalese.
Esperienze in angoli del mondo così distanti non hanno potuto che generare una performance eterogenea e volutamente disomogenea. Non è un caso che il sottotitolo dello spettacolo sia “Inhabiting The World”: la varietà delle tavolozze gestuali adottate dagli interpreti (nonché coreografi) restituiscono la variegata pluralità dei popoli e delle culture del mondo, quasi a sottintendere una lotta all’assolutismo ideologico in una battaglia per la relatività dei punti di vista. Ad accomunare i quattro assoli, invece, sembra essere la volontà di restituire le impressioni e le emozioni che i danzatori hanno provato in prima persona nei luoghi che hanno attraversato, turbamenti e frustrazioni compresi. Ad amplificare ciò, un orizzonte musicale estremamente coerente, in cui la fanno da padrone percussioni che rimbombano il battito del cuore umano e il boato dell’energia vitale.
La cifra metamediale dell’esibizione si coglie soprattutto nell’estrema e demistificatrice proposta di Sedda. Pur presentandosi come il più controverso, il suo contributo è anche il più interessante e carico di significato.
A lui è riservata, oltre all’apertura dello spettacolo (di cui già si è parlato), la conclusione: più di dieci minuti in cui, adagiato su un tappetino di plastica trasparente, spappola una serie di frutti in modo violento e allo stesso tempo fortemente sensuale. Guarda tutto il tempo intensamente e insistentemente la platea con fare provocatorio, erotico quasi a ricordare l’Olympia di Manet. Stuzzica il pubblico, lo sfida. A più riprese estrae un enorme coltello affilato, la cui presenza non può che ghiacciare gli spettatori in sala. A fine performance, il suo corpo viene totalmente ricoperto da un liquido color rosso sangue che turba e impressiona. Il suo lavoro affascina, stupisce, disorienta, sicuramente cattura l’attenzione.
L’aggressività che Sedda espone evoca le angosce di abusi, soprusi, maltrattamenti e sopraffazioni. Una violenza che non accetta altro che sé stessa e di fronte alla quale il pubblico rimane esterrefatto. Non mancano anche vivaci manifestazioni di dissenso: alla seconda replica, una spettatrice ha iniziato a inveire a gran voce contro l’artista. L’atto provocatorio deve dunque considerarsi riuscito? E viene allora da domandarsi, usciti dalla sala cosa resta al di là dello scandalo? È obiettivo sufficiente turbare lo spettatore?
Alessandro Stracuzzi
foto di copertina: Eros Brancaleon
CROSSROADS#inhabitingtheworld
di e con Mattia Quintavalle/Sly, Matteo Sedda, Girish Kumar Rachappa, Marta Wolowiec
Progetto vincitore del bando Boarding Pass Plus del Ministero della Cultura 2021
Realizzato da DANCEHAUSpiù, MILANoLTRE Festival, Festival Lasferadanza, Megakles Ballet, Eurasia International Network
Partner LOYAC Lebanon/Beirut, FDR Formal Dance Research/Mexico, Shoonya Dance Center/Belgium, Mbosse Danse Company/Senegal, Kolkata Centre for Creativity/India
con il sostegno di Istituto Italiano di Cultura/New Delhi, Consolato Generale d’Italia/Kolkata
Qui i crediti dei singoli lavori.
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview