Nel costeggiare il lago di Resia, in Val Venosta, ci si trova a un certo punto di fronte a un paradosso. Dalla superficie dell’acqua spunta un campanile, l’unico elemento architettonico che resta di un villaggio chiamato Curon (Graun in tedesco), distrutto nel 1950 per permettere la costruzione di una centrale idroelettrica. Il campanile, protetto dall’articolo 9 della Costituzione Italiana e dalla Soprintendenza per i Beni Culturali, restò in piedi mentre tutto il resto venne sommerso.
La rappresentazione di questo elemento architettonico, e del paesaggio di cui fa parte, è alla base del soggetto di Curon/Graun, spettacolo della compagnia OHT: una sperimentazione di teatro musicale che porta in scena la musica in quanto materia e lascia il palcoscenico libero da attori. Ne abbiamo parlato con Filippo Andreatta, fondatore della compagnia.
De-gerarchizzare, rivoluzionare il punto di vista, lavorare sull’assenza dell’uomo nel teatro e mettere al centro della scena quello che solitamente è “cornice”, cioè il paesaggio. Com’è nato il bisogno di questa rivoluzione?
L’idea di centralizzare il paesaggio nella scena appartiene da tempo a OHT: il nostro primo lavoro in assoluto, si parla del 2008, è stato la messa in scena di un paesaggio urbano composto da casette ispirate alla “Cabina dell’Elba” di Aldo Rossi in cui non c’erano attori. Provammo, al debutto di questo spettacolo, a integrare la presenza di un performer ma non andò bene: il lavoro era stato concepito in assenza di attori e così doveva rimanere. L’assenza di attori e la centralità di un paesaggio è un fattore che, in un lavoro teatrale, appare chiaro fin dall’origine. Non è un diktat, dipende da che tipo di progetto si sta portando avanti.
Quindi perché in Curon/Graun l’assenza di attori sul palco?
Da un lato perché era funzionale alla messa in scena del paesaggio, mi interessava lavorare sull’elemento del campanile. Dall’altro, c’è un’implicazione procedurale che potremmo definire “democratica”. Al di là della qualità dei lavori, la presenza costante di persone al centro del palcoscenico rivela un modo di vivere e un punto di vista espressamente antropocentrico. Non c’è bisogno che sia sempre così: togliere l’umano dal palcoscenico significa lavorare in un modo più umile, tirarsi indietro. La vedo come una pratica potenzialmente capace di creare uno shock culturale.
A proposito di modo di vivere antropocentrico, la vicenda di Curon/Graun risale al 1950 ma potrebbe benissimo essere un tema d’attualità. A tuo avviso, questo spettacolo è politico o vuole contribuire, in senso quasi “attivista”, a consapevolizzare sull’impatto che l’uomo ha sul paesaggio?
Dobbiamo innanzitutto definire cosa significa “politico”. Il primo aspetto politico del teatro, in generale, è il fatto di essere un luogo dove si ritrovano delle persone ed è un fattore intrinseco che va al di là della rappresentazione. Rispetto a questo spettacolo, se si fa un confronto con quello che è stato il teatro civile, si trova sempre un punto di vista privilegiato da cui viene raccontata la storia, un punto di vista in difesa delle minoranze. Con questo lavoro a me invece non interessa puntare il dito contro Montecatini (la società che ha costruito la centrale idroelettrica ndr) per dire che ha sbagliato, non c’è indottrinamento.
Con questo spettacolo e con il successivo, 19 luglio 1985, mi interessa capire la relazione tra due comunità diverse – una più grande e una più piccola – partendo da un elemento tangibile della frizione che c’è stata tra loro, in questo caso il campanile.
Voglio raccontare questo contrasto attraverso la storia, i fatti: c’era una comunità più grande che aveva bisogno di energia idroelettrica – un’energia pura, rinnovabile di cui abbiamo in effetti tutti bisogno – e una comunità più piccola che doveva rinunciare al suo paese per permetterne la costruzione.
La sensibilizzazione verso l’impatto antropico sul paesaggio non è una scelta a priori. Sicuramente c’è questa componente ma non è una forma di attivismo: non farei mai teatro per fare l’attivista perché questo snaturerebbe il teatro stesso. Sono consapevole che l’arte ha sempre una componente politica, ma in questo caso la componente principale del lavoro è artistica: lavorare sulla musica e sullo stato emotivo, lirico, della vicenda, secondo me era molto più potente che fare un’indagine.
Parli di musica e di lavoro sulle emozioni. Pensi che gli spettatori di oggi abbiano un problema con la contemplazione? Come ci accompagna Curon/Graun verso questa pratica?
Non so se c’è un problema, sicuramente una disabitudine ai tempi dilatati e il teatro è lo strumento giusto per ri-educarci alla lentezza. A teatro le persone si trovano insieme e chiedono di fare esperienza di un tempo diverso: secondo me c’è anche il desiderio di un aspetto più rituale, qualcosa che vada oltre il plot per lavorare sull’interconnessione tra gli elementi.
È quello che diceva Gertrude Stein in A Play as a Landscape: lo spettatore deve trovare il suo tempo e uno spettacolo deve essere come un paesaggio dove io decido da dove e come osservare, su quali dettagli focalizzarmi. Come un paesaggio di montagna: scelgo io se guardare da vicino, da lontano, se concentrarmi su una panoramica, sul dettaglio di un albero che sta cadendo…
In Curon/Graun non c’è una storia che inizia e finisce. C’è solo un testo, il testo della musica di Arvo Pärt che è sicuramente l’elemento più contemplativo dello spettacolo: i brani proposti hanno una struttura molto ripetitiva, quasi come un mantra che va crescendo negli strumenti e trova un riscontro nei video. La dimensione poetica dello spettacolo tocca da vicino gli spettatori, molti infatti lo hanno definito un’elegia.
La musica di Arvo Pärt l’hai cercata o è “arrivata”?
Tutto è cominciato dalla musica di Arvo Pärt, che io volevo utilizzare per realizzare un lavoro. Non sapevo quali brani avrei scelto e questo cantus è arrivato naturalmente, così come è arrivato il campanile, dopo aver passato ore e ore ad ascoltare brani di Pärt. Sicuramente ci sono cose che “arrivano” e semplicemente riconosci ma è fondamentale continuare a fare ricerca. Con la ricerca, una cosa che hai sottomano si trasforma in un’altra.
Porti in scena una ricostruzione fedele del campanile, e non riscrivi la sua storia. Qual è il valore aggiunto della rappresentazione di qualcosa che potremmo vedere nel suo ambiente naturale?
In teatro l’apparizione del campanile è un momento più epifanico di quello che potrebbe essere l’apparizione del campanile nella realtà, per esempio arrivando in macchina sul lago. Questo campanile non è considerato suggestivo dagli abitanti di Resia: è un monumento, sì, ma fa parte della loro quotidianità, soprattutto per i giovani di oggi che sono nati in una situazione data. Nel lago addirittura si fa la vela, si va a pattinare d’inverno. Il potere evocativo di questo edificio viene invece ricreato all’interno del teatro, e l’epifania sta nel vedere arte in un elemento in cui non te la aspetti. Come diceva Paul Klee, “l’arte rende visibile l’invisibile” ed è una cosa molto vera, come processo, al di là dell’impronta mistica.
Quali sono i punti di contatto tra questo spettacolo e il successivo, 19 luglio 1985?
A livello artistico, tra i due spettacoli, c’è un’idea comune: la musica si deve materializzare in scena. In Curon/Graunquesto momento si verifica quando si sente il suono della campana e si accede all’immagine epifanica del campanile che poi svanisce. Nello spettacolo successivo accade la stessa cosa ma cambia tutto il resto: il soggetto, la formula scenica, le immagini, il fatto che non ci siano video…
Il brano scelto è Lux Aeterna (di György Sándor Ligeti ndr), il requiem di un coro che in realtà non è un vero e proprio coro, ma sedici voci soliste che cantano insieme. Tutte le voci hanno direzioni diverse, quindi la musica è avvolgente, arriva da destra, da sinistra contemporaneamente. È una specie di magma sonoro che si muove e va incontro allo spettatore: il brano in quel momento si materializza nella valanga, la colata di fango della tragedia di cui parliamo. È lo stesso processo che ha luogo in Curon. Poi tra i due spettacoli è molto diverso come lo spettatore arriva al punto in cui la musica si materializza in scena.
Che riferimenti artistici hai per questo tipo di rappresentazioni?
Non saprei. Per questi due lavori, parlerei di riferimento a un sistema culturale. Ho lavorato nel teatro musicale in Germania dieci anni fa e ho sempre avuto il desiderio di portarlo in Italia, dove si fa poco. Trovo che la musica dal vivo sia una componente teatrale pura. Ma ci sono moltissimi artisti che mi piacciono. Per esempio ultimamente ho studiato molto Apichatpong Weerasethakul, un regista di cinema thailandese che riesce a inserire immagini evocative, apparizioni, in scene normalissime e in contesti anonimi.
A cura di Emanuela Gussoni