In occasione della venticinquesima edizione di Danza Urbana (1-5 settembre a Bologna), pubblichiamo un’intervista con il fondatore e direttore del festival Massimo Carosi. L’intervista si è svolta a Bologna il 12 luglio 2019 in occasione della realizzazione del libro Il pubblico in danza. Comunità, memorie, dispositivi (di Lorenzo Conti, Maddalena Giovannelli, Francesca Serrazanetti, Scalpendi Editore 2019) sul quale è stata inizialmente pubblicata. Il passaggio dalla «rappresentazione» alla «relazione», la concezione dello spazio da un punto di vista dinamico, percettivo e relazionale, la negazione di un rapporto gerarchico legato alla contrapposizione tra visione prospettica o antiprospettica sono le premesse alla base di quest’esperienza che compie un quarto di secolo. Manifestazione concreta, con l’arte, del bisogno di partecipazione e di riappropriazione dello spazio pubblico, di liberazione tanto del corpo quanto dello spazio pubblico.

 

Com’è nata l’idea del festival Danza Urbana?

Il progetto Danza Urbana è iniziato nel 1996 in un contesto particolare. In quegli anni era nata la prima cattedra di storia della danza al DAMS di Bologna e decidemmo di dare vita a un circolo universitario di studi sulla danza per affiancare alla parte teorica delle attività pratiche. Eravamo affascinati dalla post modern dance americana e dalla nouvelle danse francese: volevamo creare uno spazio per una ricerca artistica in relazione agli spazi della città, per esplorare le infinite possibilità di creazione di nuove relazioni con gli spettatori e fare conoscere a un pubblico non informato i nuovi linguaggi della danza contemporanea. Era un modo per dimostrare quanto l’accezione di danza contemporanea sia molto più ampia di quanto crede il cittadino comune.

L’esigenza originaria era più di derivazione economica, politica, artistica o sociale?

Guardando all’oggi, è molto più difficile lavorare in spazi urbani che non in spazi teatrali, sia per la complessità burocratica dei permessi che per gli allestimenti. A differenza di quanto accade in altri contesti europei, in Italia la normativa rende tutto molto più complicato. In origine – non tanto nella nostra esperienza ma per altre realtà, penso ad esempio ad Ammutinamenti – la mancanza di spazi istituzionali, avversi e respingenti nei confronti della nuova scena, ha portato gli artisti a occupare i luoghi della città e a trovare lì il proprio pubblico. Per come è strutturato il sistema italiano oggi però, la danza urbana è assolutamente disincentivata, è piuttosto una sfida.

La gratuità può anche essere una svalutazione del valore artistico dell’opera? Qual è il compromesso tra questo aspetto e la volontà di intercettare non-spettatori?

È naturale che quando si lavora nella dimensione degli spazi urbani la maggior parte degli spettacoli sia gratuita. Altrimenti la scelta di lavorare nello spazio quotidiano, che implica l’intenzione di intercettare un pubblico non informato e il passante occasionale, perde di senso. È importante la dimensione di fruizione e di divulgazione dei linguaggi della danza, che diventano immediatamente accessibili: la gratuità è un elemento di accessibilità, ma lo è anche il fatto di trovarsi in spazi quotidiani e spesso diffusi nel territorio, che attraversano aree diverse della città. Danza Urbana vuole rivendicare la necessità di riconoscere un ambito della scena contemporanea, in cui tutto ciò che esce dallo spazio della dimensione teatrale acquisisce nuove funzioni: si sposta il focus dalla rappresentazione alla relazione. 

Come intendi la relazione? In una dinamica solo di fruizione o anche di creazione? Qual è, da questo punto di vista, un buon rapporto tra il pubblico e la danza contemporanea?

In uno spazio non teatrale l’artista si confronta prima di tutto con un luogo dato, non pensato per accogliere la rappresentazione; in secondo luogo vengono meno una serie di dispositivi e di convenzioni che il luogo teatrale ha incarnato in sé, sia come edificio sia come struttura. L’artista è quindi necessariamente messo nelle condizioni di mettersi in relazione con un contesto (inteso come luogo e come situazione) e con i cittadini. Non si relaziona più con un pubblico che, scegliendo di andare a teatro, ha attivato una serie di aspettative e di attenzioni, ma con persone comuni che possono non avere gli strumenti per capire cosa sta accadendo. In questo senso la danza urbana ha la possibilità di disattivare dei preconcetti rispetto all’idea di danza che lo spettatore ha in testa. Alla parola danza un tempo si associava il balletto e Carla Fracci, oggi si pensa ad “Amici” di Maria De Filippi, perché è questo ciò che viene veicolato dai media. Disattivando quell’aspettativa si crea una situazione diversa.

Sembra quindi esistere una doppia valenza per il pubblico, che da una parte vede la danza come qualcosa di vicino, diverso dallo stereotipo che si aspetta sul paco; dall’altra riscopre lo spazio pubblico e delle dinamiche di socialità in un momento in cui ce n’è grande bisogno.

Sì, e questo è un valore specifico della danza urbana, che non appartiene alle altre arti. Da un lato permette agli artisti di inventare dispositivi e modalità di relazione con il pubblico molto vari, dall’altra consente di rivendicare il valore dello spazio pubblico con l’elemento del corpo. Nonostante questo, e nonostante ci sia una spinta molto forte da parte degli operatori e del pubblico, mentre in altri ambiti artistici la contaminazione con gli spazi urbani è ormai molto comune (penso all’arte o alla musica), per la danza le difficoltà sono molto più grandi.

Maki Morishita e Shighemi Kitamura, Danza Urbana 2012

Oggi lo spazio della città è quello più vincolato: l’antropologo Franco La Cecla dice che abbiamo introiettato talmente le limitazioni di fruizione dello spazio pubblico che non sappiamo più abitarlo, non sappiamo più che cosa è effettivamente possibile fare. La danza urbana diventa un elemento di resistenza per andare contro a questo fenomeno. I dispositivi normativi di pubblica sicurezza per la fruizione dello spazio pubblico entrano in stallo e generano una frizione rispetto a questa tendenza a restringere gli ambiti. Il festival cerca di riallargare le maglie.

In che modo concretamente? Ci fai qualche esempio?

Piazza Maggiore è sempre stata un luogo di incontro per i bolognesi: da ormai quindici anni non ci si può più sedere sui gradini davanti a San Petronio, sono stati messi in atto dei dispositivi che ostacolano la normale fruizione della piazza. In occasione della ventesima edizione del festival abbiamo deciso di inaugurare con uno spettacolo sul sagrato di San Petronio (Hekla di Le Supplici/Fabrizio Favale): una scelta che ha comportato delle difficoltà enormi, ma è stata possibile. Quando parlo di riappropriazione dello spazio pubblico, penso a qualcosa di molto concreto. Sono azioni solo estemporanee, ma pongono la questione all’attenzione dei cittadini, che possono poi attivarsi perché alcuni di questi luoghi tornino a una fruizione libera. 

I corpi che si incontrano nello spazio pubblico hanno un valore politico di per sé, al di là di quello che fanno, anche solo nello stare e nel farsi vedere. Mi viene in mente Judith Batler e il suo “L’alleanza dei corpi”: la manifestazione dei corpi nello spazio pubblico racconta di un’umanità di cui non si può più fare a meno?

In questi anni di grandi manifestazioni le immagini di persone che abitavano lo spazio pubblico per presidiarlo sono diventate immagini iconiche talmente forti che hanno spinto le autorità a porvi rimedio, impedendo determinate manifestazioni. Quanto l’elemento del corpo iconico ha la potenza di riaffermare dei diritti nello spazio pubblico? Quanto il corpo di un performer può avere questo ruolo? Rispetto ad altri paesi in cui la libertà di espressione è molto controllata, in Italia questo aspetto è meno evidente, ma anche qui c’è la volontà di riaffermare la libertà di vivere la città. L’esposizione del corpo in questo senso è rivoluzionaria: in uno spazio pubblico normato per questioni di decoro e di sicurezza, anche l’artista ha la responsabilità di riportare in evidenza questa libertà.

In questi 23 anni lo spazio pubblico è cambiato molto, soprattutto per quanto riguarda la progressiva burocratizzazione dei processi e di uso di cui ci parlavi. Invece il pubblico come è cambiato? 

I cittadini esprimono sempre di più la volontà di ritrovarsi in modalità che siano “nutrienti”. Per questo si sono diffusi i grandi festival della lettura o della filosofia, che vedono la partecipazione di milioni di persone. La voglia di riappropriarsi dello spazio pubblico è diventata talmente forte che ha portato anche gli artisti a lavorare in una dimensione di coinvolgimento e di partecipazione, nella relazione con le comunità. È una tendenza molto evidente soprattutto negli ultimi 5-10 anni, che nasce dal bisogno di rompere una solitudine sempre più accentuata nella bolla virtuale in cui viviamo. Facciamo fatica a relazionarci con il presente: per questo le arti performative acquisiscono un valore più forte, perché richiedono la compresenza. I lavori che comportano una relazione esclusiva (uno a uno) o molto prossima sono ricercati tanto dagli artisti quanto dal pubblico. 

Dal punto di vista creativo e coreografico, quale occasione rappresenta lo spazio urbano per l’artista? 

Quando abbiamo iniziato commissionavamo i lavori agli artisti, e spesso ci chiedevano di mettere delle quinte o di fare repliche solo serali per poter usare le luci: c’era cioè la tendenza a ricreare un dispositivo teatrale. Io mi sono battuto molto per affermare la danza urbana come ambito di sperimentazione, intendendola come tutta la danza che abita al di fuori del teatro: non è uno stile né un genere e al suo interno coesistono tante diverse articolazioni, ma tutte esulano dallo spazio teatrale e dal dispositivo teatrale. Trovo molto conservativa l’idea di ricostruire una dimensione teatrale in uno spazio pubblico. La dimensione propriamente artistica che mi interessa è quella di laboratorio, di ricerca su nuovi dispositivi. Credo che la danza urbana assuma sempre più valore perché, come dicevo, sposta il focus dalla rappresentazione alla relazione e oggi più che mai le arti performative avvertono la necessità di una relazione con un territorio che è più efficace se si svolge nei luoghi e non in uno spazio deputato come il teatro, che ha delle convenzioni, radicate nella coscienza del pubblico, che vanno disattivate.

Una forma di spaesamento nella relazione tra danza e realtà spesso genera nello spettatore uno spostamento di sguardo rispetto al quotidiano. È qualcosa che si sedimenta nel modo di guardare la città?

Sì, c’è un memoria che anche inconsciamente lavora in modo molto attivo. Si vede anche nel modo di usare la città: i flussi di movimento dei cittadini sembrano seguire delle regole date da una dimensione di uso che si stratifica e sedimenta. La danza urbana in qualche modo interferisce con questi meccanismi inconsci di fruizione e convenzioni di utilizzo, introducendo un’esperienza diversa che agisce nel profondo nella memoria della persona. Dall’altro lato la possibilità di conoscere i luoghi in maniera emotiva agisce sulla nostra mappa affettiva.

Si parla molto, negli ultimi anni, di spettatore attivo: parlando di danza e di percorsi di formazione, sembra che sia importante per il pubblico essere coinvolto nei processi creativi e, comunque, muoversi. Il pubblico di danza urbana è un pubblico che danza?

Ci sono tanti pubblici di Danza Urbana: quello fidelizzato, quello interessato in generale alle arti ma non specializzato nella danza, lo spettatore occasionale e via dicendo. La stratificazione è molto ampia, ma laddove ci sono proposte artistiche in cui si richiede un ruolo attivo dello spettatore, il pubblico partecipa. C’è, in generale, la predisposizione ad avere un ruolo meno passivo: la danza urbana non mette lo spettatore comodo, su una poltrona in cui sprofondare nel buio della sala. Richiede quindi una volontà, e di accettare una condizione di visione anche non ottimale.

Mi fa piacere a questo proposito citare Roberto Fratini Serafide, che afferma che il teatro partecipativo non è quello in cui si chiede allo spettatore di essere attore o danzatore per qualche minuto sollecitando il suo desiderio di essere protagonista. Piuttosto, lo spettatore ha un ruolo attivo perché nel dispositivo in cui è chiamato ad agire elabora continuamente, e capisce su di sé quali sono i dispositivi sociali che agiscono dentro di noi. Non è una questione di protagonismo, ma di lavoro interiore. Lo stesso vale per la danza: avere un pubblico che vuole essere parte di un evento in una condizione attiva è un elemento molto prezioso, che va coltivato con responsabilità, sapendo qual è la distinzione tra il valore di relazione e la dimensione sociale in cui ci troviamo.

Francesca Serrazanetti


*foto di copertina: Takuya Ohashi and Dancers per Festival Danza Urbana 2006. Foto di Giancarlo Donatini