Ogni anno il Festival Danae offre una delle poche opportunità, a Milano, per riflettere sulle arti performative. A un paio di settimane dalla chiusura della prima parte, nell’intervallo in attesa della seconda che come da tradizione si svolgerà in autunno, eccoci a coglierne l’occasione. Sperimentazione, trasversalità dei linguaggi, alterità sono da sempre le parole chiave del festival a cui, non di rado, si aggiunge l’internazionalità. Lo è stata senza dubbio in questa edizione, in cui i paesi d’elezione sono stati Spagna e Portogallo. In programmazione, oltre agli italiani Francesca Proia e Fabrizio Favale, si sono aggiunti infatti tre coppie artistiche di provenienza iberica: Pere Faura e Iñaki Alvarez, Sofia Dias e Vìtor Roriz e Ana Borralho e João Galante.
Nel panorama del teatro performativo, ancora legato per lo più allo spazio ad esso dedicato dai festival e quindi a una platea di addetti ai lavori, Danae tende la mano al pubblico. La maggior parte delle proposte, soprattutto quelle straniere, sono fruibili, non di rado ironiche e leggere, che coinvolgono gli spettatori e non solo nel momento in cui essi divengono parte della scena.

Gli spettacoli di Faura-Alvarez e di Dias-Roriz documentano una ricerca con tratti comuni, che lavora sulla decostruzione del linguaggio, sia quello del corpo sia quello della parola.
I primi, con Diari d’accions, usano le parole mute dei ritagli dei giornali, private del loro valore fonetico e del loro contesto e proiettate in scena per guidare e modificare l’azione. In un dialogo assurdo in cui ai titoli frammentari di riviste e quotidiani rispondono i movimenti dei performer (o le espressioni degli spettatori riprese e proiettate in scena in tempo reale nell’ultima parte dello spettacolo), significato e significante si confondono, con risultati spesso esilaranti e a volte più scontati. I pochi oggetti – la scala, le arance, la valigia, lo spray che profuma la sala del teatro Out Off fino alla nausea – acquisiscono insieme alle parole valori e usi differenti, virando funzioni e persino colori nel momento in cui un ritaglio di giornale “ordina” che il verde deve essere il nuovo sogno collettivo.

In A gesture that is nothing but a threat, Sofia Dias e Vitor Roriz – fondatori di una giovane compagnia con base a Lisbona – la parola viene trattata al contrario in un modo quasi materico: i due giocano sulla ripetizione e sulla variazione fonetica andando a costruire una performance vocale in cui la predominanza della forma sul contenuto e viceversa si alterna di continuo. Lo stesso viene fatto sul movimento: una stessa scena viene ripetuta all’infinito, come se il nastro fosse più volte riavvolto e portato avanti. Anche in questo caso è la variazione di un dettaglio a fare emergere le differenze e riportare l’attenzione sul significato piuttosto che sulla pura esecuzione formale. I due performer – con una cura del gesto e del dettaglio maggiore rispetto ai colleghi spagnoli – giocano a scomporre un vocabolario fatto di fonemi e di azioni, alternandone di continuo le regole che normalmente lo governano.

La ripetizione è, a suo modo, alla base anche di Atlas, la performance collettiva ideata e guidata dai portoghesi Ana Borralho e João Galante. Un evento fortemente “politico”, nel senso più antico e autentico del termine, che mette in scena le individualità che compongono una società con leggerezza e disincanto e porta davanti agli occhi di tutti la forza della condivisione, della collettività, della democrazia, contro la debolezza e il caos dell’agire individualmente. Partendo dalla filastrocca “Se un elefante disturba molte persone, due elefanti disturbano molto di più”, i 100 performers di differenti professioni che hanno risposto alla call di Atlas – diversi quindi per ogni edizione dello spettacolo e appartenenti ai singoli luoghi in cui si svolgono le repliche – entrano in scena uno dopo l’altro, sostituendo alla parola“elefante” l’affermazione della propria professione. Da una sola, cento voci si uniscono contro l’individualismo, contro la sordità delle istituzioni, contro l’indifferenza, per comporre un atlante della società in cui il pubblico può riconoscersi. La forza del messaggio arriva chiaramente fin da subito, ed è proprio questo che in parte penalizza la riuscita della performance: il dispositivo che lo regola si svela in modo immediato lasciando poi spazio a troppe poche variazioni.

L’apertura ad artisti internazionali non si interromperà nella seconda parte del festival in previsione in autunno, allargando il campo alla cultura latina oltreoceano: il coreografo brasiliano Marcelo Evelin porterà in scena uno studio sulla ripetizione del movimento con otto danzatori, in uno spettacolo che indaga il tema dell’identità con una forte componente sociale. Dall’Ecuador arriverà invece Fabian Barba con un lavoro in omaggio alla danzatrice berlinese Mary Wigman. La sperimentazione sarà ancora al centro dei lavori degli artisti italiani: sperimentazione acustica con Daniela Cattivelli, sperimentazione visiva con Garten, sperimentazione dei dispositivi che governano l’azione scenica con Francesca Pennini e il suo Collettivo Cinetico, che coinvolgerà nove neo-performers tra i 16 e i 18 anni, per la prima volta sul palco con il progetto <age>.

Danae si conferma una vetrina-laboratorio di sperimentazione e internazionalità, componenti non facili né scontate, sempre più in tempi di crisi. Per il secondo tempo, appuntamento a novembre.

Francesca Serrazanetti