La rassegna Invito di Sosta di quest’anno ha offerto allo sguardo del critico e dello spettatore una selezione artistica composita, dove le creazioni di una prima generazione di “maestri” si sono affiancate alle proposte di una seconda generazione di giovani danzatori e coreografi sui trent’anni, spesso sostenuti dai primi. Questo legame tra artisti di esperienze diverse sembra però contraddistinguere non solo le singole programmazioni ma, più in generale, l’intero scenario italiano della danza contemporanea d’autore. Ne abbiamo parlato con Alessandro Pontremoli, professore ordinario di Storia della danza all’Università di Torino.

Ci aiuta ad approfondire le ragioni e le caratteristiche di questa collaborazione tra una generazione di maestri e una di allievi – collaborazione che riguarda tanto l’organizzazione quanto la produzione di nuovi spettacoli?
La questione è complessa e una risposta richiede innanzitutto una premessa storica. Seguendo una tassonomia elaborata ormai da un po’, per la giovane danza d’autore italiana possiamo parlare di un «terzo paesaggio»: quando usiamo questo strumento interpretativo a proposito del mondo della danza, facciamo riferimento ai cosiddetti under 35, categoria che per la verità comprende anche artisti di età superiore ma che per la critica possono ancora esservi inclusi. Intendiamo, cioè, artisti avanguardistici, sperimentali, che superano il dogma del moderno – cioè la centralità del movimento – e affermano invece che danza è qualsiasi tipo di situazione performativa in cui sia presente un corpo. Ora, perché questa generazione viene accolta all’interno dei festival e delle rassegne, spesso organizzate da maestri appartenenti a un’altra generazione di danzatori? Il primo motivo è che questi artisti propongono una danza di punta, una ricerca avanzata. C’è poi da dire che la valorizzazione della ricerca degli under 35 rientra nelle disposizioni ministeriali: dal punto di vista politico, aiutarli è valutato dal ministero come “rischio culturale” (e sto citando dal DM 2014). I festival che si assumono questo “rischio” vengono valorizzati in termini di punteggio. C’è infine un altro fattore che secondo me non si è ancora sottolineato abbastanza, ed è un fattore storico. Riguarda l’Ente Teatrale Italiano, un ente nato ancora nell’Italia fascista, poi abolito nel 2010, che si occupava di gestire alcuni dei teatri più importanti in Italia. Quando si è pensato che i teatri potessero tutti diventare a gestione mista, in parte statale e in parte privata, si è concluso che dell’ETI non ci fosse più bisogno: l’ente è stato chiuso – peraltro nel suo momento di massima organizzazione interna – e tutti coloro che vi lavoravano sono andati a sostituire i dipendenti del Ministero dei Beni Culturali durante l’ultimo ricambio pensionistico. Ha così avuto luogo una sorta di nemesi storica da parte di un ente che veniva considerato inutile: a gestire il Ministero e le sue Direzioni Generali sono ora ex dirigenti e dipendenti dell’ente, dunque persone che per anni hanno gestito teatri e che non solo sono molto preparate ma hanno anche una certa capacità di visione. Anche per questo è stato possibile scrivere un primo decreto, nel 2014, e poi un secondo, nel 2017, che, per quanto perfettibili, sono stati redatti proprio tenendo presenti le nuove realtà. Il fatto che gli under 35 abbiano un posto, oggi, deriva anche da tutto questo.

Monsone di Masako Matsushita che ha inaugurato Invito di Sosta 2019/2020

Nel caso particolare di Sosta Palmizi questa collaborazione tra artisti ha radici lontane, che affondano nelle caratteristiche della compagnia fin dalla sua nascita. Che peso ha questo elemento in relazione allo scenario tratteggiato?
È sicuramente vero che quanto abbiamo appena detto, in particolare a proposito dell’attuale legislazione, ha un forte legame con alcuni casi particolari: proprio Sosta Palmizi, insieme a ALDES di Roberto Castello e alla Rete Anticorpi XL, ha ispirato il DM 2014. Intendo dire che nel momento in cui il Ministero ha dovuto ripensare le modalità dei finanziamenti è partito proprio dai nuovi modi di produzione, estremamente vicini alle varie realtà territoriali, a cui Roberto Castello, Raffaella Giordano e Giorgio Rossi avevano dato vita. Stando alla precedente legislazione, realtà come quelle appena nominate non potevano ottenere finanziamenti perché non soddisfacevano i requisiti di allora: di fatto non erano più “compagnie” nel senso novecentesco del termine, ma realtà composite di danzatori, artisti o piccoli gruppi associati. Nel momento in cui si è dovuto riformare il sistema, il Ministero ha riconosciuto che occorreva sostituire la “compagnia” con nuove realtà produttive, le cui caratteristiche si ispirano proprio a esempi toscani. È dunque vero che il caso di Sosta Palmizi, per esempio, rappresenta un modello di associazione tra artisti, anche intergenerazionale, che sicuramente ha anticipato e, in un certo senso, ha dettato i cambiamenti legislativi degli ultimi anni. In più, se per esempio guardiamo gli spettacoli che sono stati inclusi in Invito di sosta quest’anno, intuiamo effettivamente la forte vicinanza tra Sosta Palmizi e il terzo paesaggio della danza, cui i danzatori scelti appartengono tutti – chi più avanguardisticamente, chi meno.

Alessandro Pontremoli

A questa capacità di fare sistema da parte dei danzatori non sembra invece corrispondere un atteggiamento unitario da parte della critica, che al contrario appare estremamente divisa.
Anche in questo caso, la situazione attuale ha una radice storica: il fortissimo ridimensionamento della carta stampata e del giornalismo. In questo contesto, il giornalista che fa il critico di danza oggi non ha più la vecchia recensione come strumento di lavoro, perché nella migliore delle ipotesi uno spettacolo di danza contemporanea non supera le due repliche: il pezzo di bravura in terza pagina sta scomparendo. Alla critica di danza e di teatro non restano che poche riviste specializzate e il web. È con questa situazione di delegittimazione progressiva e di generale condizione depressiva che possiamo spiegare come mai una buona parte della critica odierna si sia assestata su posizioni fortemente conservative e di difesa della professione, in opposizione a una generazione di artisti che invece è andata infrangendo le regole date, addirittura portando in scena una danza fatta da non professionisti o pensata da coreografi che non hanno seguito un cursus studiorum tradizionale.
In questo scenario, una parte della critica in Italia secondo me non si è adeguata a quello che invece ha fatto la danza, che si è attrezzata dal punto di vista socio-culturale e nei rapporti con le altre arti. Ecco che allora parte, da una certa critica, la difesa della danza come movimento, come codice, come coreografia – cioè della danza come insieme di tutti quegli elementi che i critici sono ancora in grado di riconoscere e di leggere – mentre tutto ciò che esula da questi schemi non viene più ritenuto danza, ma performance. Mi sembra che a una parte della critica manchino gli strumenti adeguati per leggere ciò che accade: se è vero che la teoria crea gli oggetti, è però anche vero che sono gli oggetti a creare il metodo con cui poi noi li affrontiamo. Il rischio che altrimenti si corre è imporre una visione anti-democratica: in un momento storico in cui un certo tipo di ordine è stato messo in discussione, assistiamo al contemporaneo tentativo di tornare a quello stesso ordine.
A volte vengo accusato di appoggiare incondizionatamente tutti i giovani artisti, ma personalmente non appoggio nessuno: faccio lo storico, cioè constato che ci sono questi artisti, che si inseriscono in un contesto preciso e do ragione del loro tentativo di farlo. Non entro nel merito dei giudizi, non dico se uno spettacolo è bello o non bello: questo è, per l’appunto, il compito di un critico. Però il critico deve essere avveduto: certo, è legittimato a dire che uno spettacolo non gli piace, o è inutile – questo è il suo compito – ma lo deve fare a partire da una strumentazione adeguata.

Trisha Brown

Lo ha già accennato anche lei: la maggior parte dei giovani danzatori e coreografi di questo terzo paesaggio sono culturalmente molto preparati. Come si spiega e come si colloca questo dato?
È vero: sono preparatissimi. Sono artisti che nascono dal sostanziale cambiamento di paradigma dettato negli anni novanta. Un primo cambiamento era già avvenuto negli anni sessanta, con Trisha Brown, Yvonne Rainer o Steve Paxton, quando danza non significò più una compagnia di artisti in scena su un palco, che si muovono tutti al suono della musica. La generazione dei ’60, però, era poi tornata sui propri passi. Negli anni ’90, per merito di alcuni artisti francesi e italiani che operarono contemporaneamente senza davvero conoscersi o entrare in contatto, la danza è diventata una nuova opportunità democratica. Quello che succede oggi si può far risalire a quel momento, a quando cioè gli artisti cominciarono a non essere più solo artisti ma anche, se non soprattutto, intellettuali: dietro ai loro spettacoli c’è ricerca. Proprio recentemente gli artisti italiani sono riusciti a ottenere il riconoscimento da parte del MIUR dell’equivalenza sul piano scientifico tra la ricerca artistica e quella scientifica: effettivamente molti artisti oggi fanno un tipo di ricerca che, benché poggiante su una serie di processi decisamente corporei, da un punto di vista metodologico è molto simile alla ricerca nostra, degli studiosi. La danza di oggi non è la danza degli anni cinquanta, e dunque va affrontata in modo diverso. Il fatto che alcuni degli artisti di oggi non sappiano neanche danzare non è dirimente, perché danzare nei loro spettacoli non è necessariamente richiesto: non è detto che se non c’è movimento non ci sia danza. Questa decisione, su cui una parte della critica si arrocca, è un accordo di natura puramente culturale. Se non si capisce che la danza può essere anche altro, non si capisce nulla – anzi si dà solo adito a polemiche e processi di difesa residuali che non aiutano a comprendere nulla dei fenomeni del presente.

Virginia Magnaghi