Da alcuni giorni in Grecia la notizia è virale. Il ballerino e coreografo Dimitris Papaioannou “ha finalmente conquistato l’Italia!”: il noto periodico milanese Danza&Danza lo ha proclamato Coreografo dell’anno 2015. Nella motivazione del Premio, egli è definito “un pittore della scena”, che plasma corpi, materia e luci “in un teatro di movimento rarefatto, visionario, ricco di affondi emotivi, frammenti di storia (ellenica di ieri e di oggi), quadri di vita”. Dimitris è spirito ribelle e anticonformista. Il suo apprendistato si svolge nelle arti visive: dipinge (allievo talentuoso di Ghiannis Tsarouchis, uno dei massimi pittori greci contemporanei), si diploma all’Accademia di Belle Arti, inizia la carriera di vignettista, finché arriva l’incontro fulminante con la danza. Nel 1986 fonda la compagnia Edafos Dance Theatre e per un caso fortuito approda a New York, dove studia e affianca come assistente il regista Bob Wilson. Torna ad Atene ricco di nuove esperienze e arrivano i primi riconoscimenti ai suoi lavori sperimentali (Premio nazionale di coreografia per Medea, 1993).
La sua storia sembra destinata alla gloria periferica di un piccolo Paese, ma ecco la data fatidica, 13 agosto 2004: è il direttore artistico (appena trentasettenne) della Cerimonia Inaugurale dei Giochi Olimpici di Atene, seguita da milioni di spettatori. È un trionfo, che gli procura elogi in patria e all’estero.
Eppure il decollo internazionale arriva solo dopo alcuni anni. Recentemente gli viene affidata la Cerimonia d’apertura dei primi European Games a Baku (Azerbaijan, 12 giugno 2015), dove rivela grande concentrazione e controllo registico (duemila i figuranti), senza scadere nello show-business.
Ma il suo vero spirito si riversa nella semplicità simbolica di performances minimali, lontanissime dalla grandeur degli spettacoli di massa. Ed è questa essenzialità di mezzi e linguaggi che ha sedotto anche il pubblico italiano. Infatti in ottobre 2015 all’Olimpico di Vicenza si è visto Primal Matter (spettacolo del 2012), ma ha colpito soprattutto Still Life (2014) che, dopo il successo soldout di Atene, sbarca a New York su invito di Bob Wilson, trionfa a Parigi e ha poi toccato il Crt – Teatro dell’Arte di Milano (ottobre 2015) e Cagliari (dicembre 2015). La tournée internazionale continua in Sud America e tornerà in Europa a primavera.
In questi recenti lavori l’intensità è tale che persino la musica sembra divenire superflua. Gli unici rumori sono quelli prodotti sul palco: passi, tocchi, rimbombi, strofinamenti, amplificati da microfoni poggiati a terra. Dunque una performance muta, dove a parlare sono immagini e corpi, nuclei dell’interesse di Papaioannou.
Il corpo è epifania di nudità scultorea in Primal Matter, in un duetto-lotta con l’Altro, cioè la razionalità della Mente umana in elegante completo nero. La narrazione si fonda sull’estetica dell’immagine e sullo spiazzamento dell’inganno ottico: grazie a studiate proiezioni di luce (e qui si riconosce l’eredità di Wilson) e all’interposizione di pannelli, Papaioannou ‘fa a pezzi’ il corpo in figurazioni mutilate che rievocano statue antiche, per ricomporlo in un ordine nuovo.
Da scultore di luce e materia, Papaioannou in Still Life si fa soprattutto “pittore” della scena. Intervistato da Myrtò Loverdou (To Vima 13.09.2015), l’artista così spiega: «Still life significa: ancora vita, ma anche vita immobile e natura morta. La lingua inglese rende possibili e compresenti tutte queste sfumature.
Nella performance faccio riferimento alla storia della pittura, alla sopravvivenza umana e nel divenire scenico si intrecciano dialoghi fra movimento e immobilità». Ispirandosi alla lettura esistenzialista di Camus sul mito di Sisifo, il coreografo rappresenta l’archetipo dell’uomo contemporaneo, schiacciato dal peso del suo dovere quotidiano e imprigionato in un’iterazione ossessiva e assurda.
Sotto una luce lunare, sulla scena troneggia un Muro: ostacolo da superare, blocco materico invalicabile eppure pieno di crepe, pronto a sgretolarsi in calcinacci. I danzatori, in completo nero, simboli della nostra
condizione umana, sono “anonimi eroi della classe operaia”, costretti al soverchiante peso della materia ma, come angeli senza ali, anelanti alla leggerezza. È un continuo sbattere contro il Muro, fra lo scricchiolio
di cocci e macerie. Facile pensare anche alla Grecia attuale, paesaggio di rovine antiche e contemporanee, che vorrebbe spezzare muri di imposizioni e austerità, per plasmare una nuova mappa di sè (Iliana Foniakaki, Protothema 24.05.2014).
Da una faglia nel muro fuoriescono gambe, braccia, visi, tronchi, pezzi di corpi pronti a formare creature ibride, per poi disfarsi nuovamente, inghiottite dalla materia e dalla fatica della ripetizione. Fra lampi di luce e trompe-l’œil (scudi in plexiglass in movimento, un cielo plumbeo di cellophane), ecco altre pietre da ordinare, riporre, impilare, riciclare. Pietra-tormento ma forse anche salvezza per tendere verso l’alto.
Non manca la visione di un Sisifo felice, come raccomandava Camus, quando i danzatori condividono un banchetto, per poi tornare però subito alle “pietre”, o meglio alla sopravvivenza che prevede il continuo sgretolare muri e maschere di cemento.
Una liturgia dell’immagine all’insegna della povertà dei mezzi, una “istantanea che sembra congelare il tempo”, come ha sottolineato la critica greca Eleni Bistika (Kathimerinì 03.06.2014), la traccia di “paesaggi esteriori/interiori complessi” all’insegna della poesia (Marinella Guatterini, IlSole24Ore, 27.12.2015).
Premio meritato per un artista coraggioso, dal linguaggio profondamente contemporaneo.
Gilda Tentorio