Pubblichiamo di seguito, per diritto di replica, la riflessione di Antonio Syxty, regista tra i responsabili artistici di MTM Manifatture Teatrali Milanesi, in risposta all’articolo Il Ddl Zan? Una questione di fiducia teatrale di Gianmarco Bizzarri.
Una fotografia scattata con un cellulare ritrae una mano femminile in primo piano che mostra una scritta fatta sulla pelle del palmo: “DDL ZAN”. Sullo sfondo, leggermente sfocato, un viso femminile coperto dall’immancabile mascherina degli ultimi mesi, mentre a fare da didascalia a margine sono poche parole che invitano a farsi la stessa scritta sulla propria mano e a presentarla ottenendo così uno sconto sul biglietto di ingresso. È la campagna di promozione per gli spettacoli che aprono la stagione di MTM Manifatture Teatrali Milanesi, un teatro che è stato chiuso più di 400 giorni per via delle restrizioni.
Se al posto della scritta sul palmo della mano ci fosse stato il simbolo della pace probabilmente non sarebbe successo nessun fattaccio, nessuna indignazione, anzi forse sarebbe piovuto qualche elogio e tutto sarebbe finito lì. Nessuno avrebbe parlato di discriminazione fra guerrafondai o mercanti di armi e pacifisti. Ma andiamo con ordine: un signore di nome Fedez che di mestiere fa il cantante, ma anche l’influencer, ha pensato di rendere noto in modo massivo durante il concerto del 1° maggio trasmesso dalla Rai sul terzo canale quelle lettere: DDL ZAN. Prima di allora, probabilmente, se si fosse chiesto a un passante il significato di quella sigla, difficilmente si sarebbe ottenuto una risposta soddisfacente. Qualcuno si sarebbe tenuto sul vago altri avrebbero abbozzato in modo confuso, altri ancora avrebbero finto di essere informati sull’argomento: in un’epoca ‘liquida’ come la nostra che vive di sciami digitali e di post-verità permanente, siamo tutti “un po’ informati” magari solo in superficie.
Ma torniamo a quel 1° maggio quando il signor Fedez ha deciso che DDL ZAN doveva entrare nell’ immaginario collettivo: ha centrato il suo obiettivo dal palco di un concerto che è una ricorrenza, davanti alle telecamere della tv di stato quella finanziata con i soldi pubblici, generando una tempesta mediatica. La stessa che, su scala ridotta, si è abbattuta su MTM dopo la campagna incriminata: scatenando subbuglio, indignazione, confusione, elogi, ingiurie, reazioni da parte di politici, distinti professionisti del foro, giornalisti, comuni cittadini. Insomma quello che ci si aspetta che possa succedere quando è in atto una campagna elettorale per l’elezione dei rappresentanti locali della politica. Dopo quel 1° maggio, MTM ha guardato con attenzione alla comunicazione simbolica veicolata dalle fotografie che iniziavano a circolare in rete, tutte molto simili a quella utilizzata dal suo ufficio promozione. Anzi si può dire senza sbagliare di troppo che lo stilema diventato virale sia quasi un calco di quello teatrale (mano in primo piano, scritta, volto in secondo piano, ecc.). Niente di strano: in questo periodo di comunicazione a sciami digitali i formati e i simbolismi si rincorrono e si mischiano, un po’ com’era accaduto con l’arcobaleno che campeggiava sulla stagione teatrale di MTM mai iniziata e interrotta a causa della pandemia e delle restrizioni sanitarie.
L’arcobaleno in quel caso era quello del Mago di Oz, di Dorothy e della sua canzone (Over the rainbow), ma è chiaro che quei colori sono diventati anche simbolo di accettazione, di diversità, di desiderio di pace e di fratellanza fra popoli, razze, religioni, scelte sessuali e via di seguito. Una volontà precisa di MTM di adottare un simbolo ampio che al richiamo fiabesco e infantile unisse i valori di unità e di tolleranza tra esseri umani.
Ma si sa: la polisemia dà, la polisemia toglie.
Con il fattaccio del “DDL ZAN” inscritto sulla mano, si è iniziato a parlare di discriminazione in relazione al prezzo del biglietto scontato: se non mi faccio la scritta sulla mano pagherò il biglietto pieno. Razzismo al contrario, indignazione, scelta perlomeno ambigua, e così di seguito, come si legge nei vari commenti comparsi sul web e sui social. Non si tiene conto però che la discriminazione (dal latino discriminare, der. di discrimen ovvero separare) avviene anche per tutti coloro che non hanno una tessera AGIS, ARCI, ARCI GAY, COOP Lombardia, FAI, Emergency, Feltrinelli, Istituto Francais Milano, Mondadori, Paolo Grassi, Piccolo Teatro, Scuole di teatro e Università, TCI Touring Club Italiano, Under 30 e over 65…Tutti costoro vengono discriminati o meglio separati da chi invece “fa parte”, “appartiene” a queste categorie. Mi si dirà che non è la stessa cosa, che quelle in elenco sono categorie acclarate, mentre il DDL ZAN non è una categoria, non è una tessera (in effetti, questo è vero: è un Disegno Di Legge) e che utilizzarlo per le promozioni di biglietti scontati è una condotta per lo meno poco corretta. Posso essere anche d’accordo. Ma qui la questione è un’altra e riguarda il teatro e la questione del corpo che per il teatro è materia prima: il corpo come linguaggio, il corpo come ‘scrittura’ del presente. E ancora: il corpo come incarnazione della parola e del gesto, il corpo come esibizione e come sacrificio. Il corpo come rito.
Quella mano scritta è quindi il corpo che diventa linguaggio del presente, attraverso la simbologia del tatuaggio/scritta. Quella mano è il corpo performativo che si propone come gesto e poi come pensiero di libertà e tolleranza auspicata da un DDL che non è ancora legge. Si potrà certamente dissentire dalle scelte del teatro, così come nel 1968 dovettero dissentire ad Avignone i benpensanti che si trovarono gli attori del Living Theatre che si denudavano in Paradise Now, costringendo sindaci e direttori a dimettersi. Ma il teatro non può esimersi dal mettere in scena il corpo come linguaggio politico e di significato.
Forse ci sarebbe da chiedersi quanto sono liberi i teatri nell’espressione del loro operato quando nella realtà dei fatti partecipano a bandi pubblici e finanziamenti da istituzioni che a loro volta sono gestite da rappresentanti della politica con orientamenti diversi. Va sottolineato che questi bandi non regalano denaro a nessun teatro. Non sono finanziamenti a fondo perduto. I teatri – che sono aziende con la responsabilità di numerosi lavoratori assunti – rispondono nel dettaglio del loro operato con preventivi e consuntivi per i quali è previsto il contributo pubblico. Ai teatri nessuno regala il denaro pubblico. Ogni contributo è documentato dalla trasparenza dei sistemi che ogni cittadino- contribuente può verificare on line. Non ci sono grossi margini di discrezionalità nei contributi pubblici. Si tratta semplicemente di un sostegno economico che ogni azienda teatrale con bilanci virtuosi e un’amministrazione solida può ottenere.
Ma se torniamo alla libertà di espressione per i teatri dobbiamo interrogarci quanto in realtà questa libertà venga minacciata se non si è d’accordo con il Re che è diventato il politically correct che ci governa in questa fobocrazia che ha preso il posto della democrazia. «Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediato da immagini» diceva Debord. Ma desiderando essere poco corretto anche con me stesso ne aggiungo un’altra dello stesso Debord: «Le citazioni sono utili in periodi di ignoranza o di oscure credenze».
Antonio Syxty
In copertina: Il Living Theater ad Avignone nel 1968 con Paradise now