Abbiamo aperto il nostro Focus diffuso ponendoci degli interrogativi sul canone drammaturgico e sul raggruppamento di una serie di autori in base a parametri linguistici, culturali, storico-sociali. Il Focus è nato anche dalla volontà di esplorare il panorama drammaturgico seguendo vie alternative, sovranazionali, al di là di confini che, nonostante tutto, oggi continuano a incidere nella definizione di aree letterarie e teatrali – delimitando anche le possibilità di incontro fra parole, gesti e pubblici.

I risultati di questa esplorazione sono stati sorprendenti e soprattutto hanno cambiato il nostro modo di leggere e assistere a spettacoli. La curiosità e il desiderio specifico di classificare e andare alla ricerca di elementi, tematiche e stili comuni, man mano che le letture di Kossi Efoui, Tena Štivičić, Thomas Perle, Alexandra Badea, Matéï Vișniec proseguivano, hanno dovuto cedere davanti all’unicità dei singoli testi. Inutile dire, d’altro canto, che in ognuno di essi abbiamo trovato un’attenzione particolare alle componenti storico-sociali e politiche: più allegorica e intellettuale negli autori della generazione precedente, più apertamente critica e ironica nelle autrici e negli autori più giovani. Ancor più interessante, e parimenti legato alla natura del Focus, è stato il discorso linguistico e della sperimentazione formale: non c’è stata drammaturgia che non abbia in qualche modo spezzato la mimesis tradizionale e che non abbia preso le mosse da una pur minima riflessione stilistica, più o meno complessa.

Esistono insomma “componenti transculturali” che tuttavia cambiano di caso in caso, di generazione in generazione, di luogo in luogo: e l’arte drammaturgica, così minoritaria e dipendente dai processi, apre strade ancor più lunghe e diverse. Per tutte queste “decostruzioni”, siamo contenti di aver scelto un autore come Kossi Efoui per il nostro “focus nel focus” e di chiudere con una nostra intervista a lui. Il suo lavoro e il suo pensiero non pongono al centro queste questioni, ma ne tengono viva coscienza, portando il lettore e lo spettatore a chiedersi se non sia il caso di uscire da certe dialettiche occidentali per iniziare a scardinarle. 

Bambola Ashanti, Ghana

Il tuo luogo di nascita ha determinato il fatto che hai diverse lingue madri: il francese, il togolese, e probabilmente anche altre. Come influisce questo plurilinguismo sul tuo linguaggio drammaturgico? I tuoi testi, ad esempio, mescolano spesso prosa e poesia.

La mia lingua madre, l’ewe, parlata nel sud del Togo, del Benin e del Ghana, è una lingua che privilegia il ricorso a formule immaginifiche. Il campo dell’onomatopea, ad esempio, è abbastanza aperto da permettere al parlante di inventare spontaneamente neologismi effimeri per tradurre immagini sonore. Da “tcha tcha”, che significa “veloce” o (in un certo senso) “di fretta”, posso improvvisare un “tchakpla tchakpla” o un “tchagla tchagla”, che aggiungerebbero una colorazione di disordine e confusione alla fretta. Per quanto riguarda la commistione tra prosa e poesia, prima di imparare a leggere e scrivere, e prima di imparare la lingua francese, il mio immaginario infantile è stato plasmato da storie in cui la separazione tra prosa e poesia non è rigida come nella letteratura scritta. È questa immaginazione originale che informa la mia scrittura e mi permette di superare i confini dei generi, che, oltre ai due già citati, comprendono per me il proverbio, lo scherzo, l’indovinello, la parabola e molte altre forme che possono essere raggruppate sotto il nome di arti della parola.

Qual è il ruolo, nella tua scrittura, della commistione e dell’incrocio tra culture diverse, generalmente concepite come distanti?

Ciò che unisce gli esseri umani al di là delle differenze culturali che dovrebbero separarli, ciò che giustifica il postulato dell’esistenza di un universale, è la traduzione. Scrivere, come hanno detto altri prima di me, significa sperimentare la traduzione, anche se all’interno della stessa lingua.

Come sarebbe stato il tuo teatro se fossi tornato in Togo, se il Togo fosse un paese diverso? In cosa differirebbe il tuo percorso?

Domanda impossibile. Tranne che, forse, ribaltando la questione: cosa non sarebbe cambiato nella mia scrittura se il Togo fosse stato un paese come tutti gli altri, cioè senza la violenza della dittatura? Non avrebbe cambiato la consapevolezza che la scrittura è un atto sotto stretta sorveglianza. Se non altro perché il materiale che usiamo, la parola, è un materiale distorto dall’uso collettivo, minato dall’ideologia, piegato dalle forze del significato dogmatico, inquinato dai riflessi condizionati dell’“ovvio”. Scrivere, dice José Angel Valente, «è un atto di decondizionamento radicale della parola».

Maschera kpelie in bronzo, Senufo Costa d’Avorio

Hai spesso scritto per il teatro di figura. Cosa può la marionetta per un autore contemporaneo? Che uso del linguaggio permette? Come può, la figura, nutrire e incontrare la scrittura contemporanea per il teatro?

All’inizio era la scrittura, se consideriamo il gesto come una scrittura. In questo senso, la marionetta è già una scrittura, come la maschera. Si tratta di una concentrazione di linee di forza nel movimento, sia nel caso della marionetta che si muove attraverso il burattinaio, sia nel caso della maschera che si muove attraverso chi la indossa. È il dispiegamento di una scrittura tridimensionale. La mia preoccupazione è quella di esplorare una pratica contemporanea di scrittura teatrale senza perdere il contatto con questa forma di scrittura arcaica (o primitiva, se rendiamo a questa parola la sua nobiltà).

Siamo rimasti colpiti dal potere evocativo della tua scrittura, intrisa di immagini, suoni e musica. C’è un rapporto diretto tra il tuo modo di immaginare e le altre arti, come quelle figurative? Potresti citare tre fonti iconografiche che ti hanno particolarmente influenzato?

Ci sono tre immagini che mi accompagnano: il dipinto di Hieronymus Bosch La nave dei folli; la statuetta della fertilità del popolo Ashanti dell’attuale Ghana, comunemente nota come “bambola Ashanti”; e una maschera il cui modello si trova in quasi tutto il mondo, in Africa, Asia, Pacifico e altrove: è un volto umano sormontato da un uccello, il cui becco si appoggia nel punto in cui alcune culture individuano il terzo occhio.

Riccardo Corcione, Francesca Di Fazio, Fabiola Fidanza


in copertina: Hieronymus Bosch, La nave dei folli , dettaglio