È il desiderio il nodo centrale di questa conversazione con Giorgia Cerruti della Piccola Compagnia della Magnolia e – insieme – della vicenda reale a cui si ispira lo spettacolo che ha scritto, diretto e interpretato. Ne abbiamo parlato prima del festival Lecite Visioni, cornice nella quale il 9 maggio, al Teatro Filodrammatici di Milano, 1983 Butterfly verrà riproposto a nove anni dal debutto. 

Qual è stata l’esigenza che ti ha spinta a riportare sotto la luce dei riflettori un caso come quello di Bernard Boursicot e Shi Pei Pu? 

Lo spettacolo è nato nel 2016 per uno strano cortocircuito. Era un momento in cui io e Davide Giglio, cofondatore con me della compagnia e coprotagonista dello spettacolo, avevamo voglia di lavorare sull’inversione dei ruoli dal punto di vista tecnico, sia vocalmente sia fisicamente, ma anche nell’humus emotivo del capovolgimento: io maschio e Davide femmina, in un incrocio che permettesse di utilizzare elementi posticci e costumi. Proprio in quel periodo incontrammo M. Butterfly di David Cronenberg, film dedicato alla vicenda realmente accaduta a Bernard Boursicot. Colpiti da questa storia, siamo riusciti a contattare Bernard stesso e siamo andati a trovarlo a Rennes: lì abbiamo raccolto in una giornata quasi otto ore di registrato, percependo in lui una grande frattura emotiva. Evocava fatti degli anni ’60 e poi degli anni ’80 – il processo – come un fiume in piena, come se fossero appena accaduti e non fossero stati ancora del tutto elaborati. Così ha raccontato la sua storia: quella di un giovanissimo ragazzo di Parigi, poi diventato un importante diplomatico, che si innamora di una cantante d’opera di Pechino, Shi Pei Pu. La loro storia d’amore è accidentata: Bernard è spesso assente a causa dei suoi viaggi e viene a scoprire di avere avuto un figlio da Shi Pei Pu. Intanto il governo cinese lo ricatta e, sotto la minaccia di essere diviso dalla compagna, diventa una spia filocinese finché nel 1983 – anno emblematico, che abbiamo messo nel titolo – Bernard e Shi Pei Pu vengono arrestati per spionaggio in Francia. In carcere Bernard scopre che Shi Pei Pu è un uomo e tenta di suicidarsi; poi inizia un processo che ha fatto la storia e che giudicherà entrambi colpevoli. È orripilante come sul banco dei testimoni non ci fossero questioni politiche ma affondi puramente pruriginosi, in un clima di grande moralismo per quanto riguarda lorientamento e lidentità sessuale. Durante linterrogatorio, Bernard raccontava come Shi Pei Pu avesse un volto di donna e soprattutto di come avessero molto raramente rapporti sessuali, con lei/lui sempre vestita/o. Ho creduto alle sue parole, guardandolo negli occhi, quando dice di non aver mai pensato di aver amato un uomo prima di aver visto Shi Pei Pu nudo in tribunale: proprio la rivelazione di questa verità è stato per lui il fatto più terribile rispetto a un amore che definiva il più grande della sua vita. Bernard ha sempre lottato per affermare che la verità è relativa e che ogni limitazione a questo relativismo causa soltanto infelicità. La loro storia intreccia esotismo, dinamiche di seduzione e, soprattutto, quello che per noi è diventato il tema principale: il desiderio che li ha legati. 

In relazione alla sfera del desiderio, quale ruolo hanno giocato i codici dell’opera lirica, soprattutto in relazione alla componente en travesti?

In generale, non sono un’amante dell’opera lirica ma sono passata per questo linguaggio come modo di amplificazione della macchina sonora ed espressiva. E più ti distanzi dal naturalismo, come nel caso del melodramma, più è necessario avere una densità emotiva in grado di sostenere il distacco, per evitare la caduta nell’inautenticità. È stata una sfida spingere la contraffazione fisica e vocale vedendo fino a che punto un lavoro emotivo autentico l’avrebbe sostenuta: abbiamo portato la scrittura espressiva in zone anche grottesche, provando a mantenere una verità delle emozioni. Il legame tra densità formale e densità emotiva è al centro del mio interesse di ricerca artistica da vent’anni. In un’ora di spettacolo, comunque, i momenti di grazia non possono che essere pochi e inattesi; però, appunto, come strumento di amplificazione ed esplosione del sé, l’opera ci è apparsa come un modo per raggiungere le emozioni che ricercavamo. 

1983 Butterfly, foto di Stefano Roggero

Sono passati quasi dieci anni dal debutto di 1983 Butterfly e il contesto storico-politico italiano ha affrontato profonde mutazioni: già solo il festival LGBTQIA+ del Teatro Filodrammatici si chiamava “Illecite Visioni”. Oggi che le visioni sono diventate “Lecite” cosa significa per te riproporre lo spettacolo in una cornice così esplicitamente queer?

Anzitutto nel 2016 non c’erano molti spettacoli legati a questa tematica, quindi il nostro lavoro ha avuto un’eco particolare, rafforzata dalla presenza di Bernard al debutto. All’epoca l’attenzione era rivolta a come Boursicot vivesse la propria omosessualità: questa era la discussione centrale in quei giorni; oggi sento che il tema più attuale è quello di un desiderio che per vent’anni ha tenuto insieme due persone. Mi sembra che parlare di amore sia più interessante rispetto alla dicotomia fra lecito e illecito. In questo clima di terribile moralizzazione dei costumi, mi pare che, in una maniera più surrettizia rispetto a dieci anni fa, trapeli l’obbligo di catalogare relazioni, orientamento, identità. Ecco: nel rapporto tra Bernard Boursicot e Shi Pei Pu ho percepito proprio il desiderio di incontrare l’altro senza categorie, di scoprirsi nell’altro. Ecco perché trovo importante raccontare questa vicenda: è l’attenzione verso l’altro che ci salverà dal dover legittimare eventuali “visioni” future. 

La storia di Bernard, come accennavi prima, poggia su molti non detti e fratture emotive: che cosa ha implicato il dialogo diretto con lui, con l’altro da sé e con il suo desiderio?

Dal punto di vista drammaturgico abbiamo tenuto insieme la Butterfly pucciniana e le parole di Bernard. Da un lato, abbiamo attinto anche dai testi precedenti rispetto al libretto di Giacosa e Illica per la musica di Puccini, come quello di David Belasco; testi in cui l‘Occidente sottrae l’identità all’Oriente, quasi l’inverso del caso di Bernard e Shi Pei Pu. Dall’altro, abbiamo utilizzato moltissime parole di Bernard che avevamo registrato durante il nostro incontro e che abbiamo lasciato intatte. Perciò il desiderio emerge sia dalla drammaturgia preesistente sia dalla parola viva di Bernard. E le ore passate con lui hanno cambiato tutto: giunti sul palco da Rennes, con Davide abbiamo cominciato un lavoro di scrittura di scena, modificando i nostri testi in un confronto continuo fatto anche di improvvisazioni. In questo quadro, io e Davide interpretiamo i protagonisti incarnando un ribaltamento: io impersono Bernard; lui, Shi Pei Pu. Nel complesso, il desiderio che ha mosso Bernard si è innestato sul nostro di affrontare il tema tecnico-formale dell’inversione dei ruoli e di lavorare anche sul teatro stesso. Il travestimento obbliga l’attore a fare un salto dall’abitare una parola che lo ingaggia emotivamente al travisare quella stessa parola perché è menzogna. Di più: è menzogna nel corpo di un altro, di un’altra identità sessuale. 1983 Butterfly è uno di tre spettacoli legati al nostro progetto Bio_Grafie, assieme a quelli su Zelda Fitzgerald e Rudol’f Nureev: tutti e tre si confrontano con vite consapevolmente avviate verso desideri da compiersi. Questo nodo, per me, è centrale nella vita come nel teatro. 

Che cosa può il linguaggio teatrale di fronte a questo desiderio?

Già da spettatrice mi accorgo che chi fa teatro ha un dovere in questo senso. Dobbiamo togliere lo spettatore da una prospettiva di comprensione mentale, che inanella significati intellettuali che lo imbrigliano in una condizione di pensiero più che di sensi. Vorrei che si tornasse a mettere il pubblico in una situazione di percezione dell’altro, facendo un’esperienza veramente immersiva: viviamo di relazioni e di com-passione, patiamo dell’altro e con lui. Il teatro ha la possibilità di creare un terreno di umanesimo reale, soltanto, però, se riesce a far scendere le cose dalla testa al sentire. Non solo alla pancia e al cuore: intendo proprio lo scendere verso un’esperienza sensoriale, capace di aprire i canali emotivi. E per farlo non si passa solo dalle storie che raccontiamo: come insegnano maestri come Danio Manfredini, anche nell’approccio registico e attoriale possiamo tornare ad avere un corpo d’attore che è un vaso risonante per l’anima. Il teatrante non può essere solo una betoniera di pensieri razionali da trasferire allo spettatore, che, dal canto suo, rischia di reincontrare quanto vive fuori dal teatro senza alcuna dilatazione e mitizzazione. Dobbiamo aprire le maglie del sentirsi altrove, dell’extra-quotidiano, oggi più che mai visto che il mezzo veloce e tritatutto dei social è vincente in termini produttivi. Ma il tempo relazionale del teatro può viaggiare su onde pervasive, se lo vuol fare; altrimenti rimane un tempo borghese in cui stare comodi senza aver scalfito nulla.

a cura di Gaia Barco e Mattia Gritti


immagine di copertina: 1983 Butterfly, foto di Stefano Roggero

L’intervista fa parte dell’osservatorio critico dedicato a Lecite Visioni 2025